Essere qualcuno
Macbeth, signore di Glamis, vinse eroicamente la battaglia contro un esercito di ribelli, appoggiando fedelmente il potere di Re Duncan. Ma l’animo degli uomini è sempre infestato da orribili fantasmi, in questo caso rappresentati da tre streghe che predicono al nostro eroe che diventerà signore di Cawdor e re di Scozia. Sulle prime, Macbeth è sorpreso e dubbioso, ma poco dopo, quando apprende di aver appena acquisito il primo titolo, è sbalordito. Non serve altro: egli decide di diventare re e procede all’omicidio di Duncan, nonostante l’orrore che tale idea gli provoca. I suoi ultimi dubbi sono tuttavia superati dalla moglie, Lady Macbeth, che affronta i dilemmi del marito sfidandone la virilità, il suo stesso valore. Lei disprezza quel dilemma morale che indica mancanza di coraggio. Convoca i poteri del male per aiutarla a compiere ciò che “deve” essere fatto. Quale astuta erede di Eva, tesse la sua trama dicendo a suo marito di fingersi un ospite fidato quando il povero Duncan, ignaro, verrà al castello.
Macbeth, temendo la propria inanità, deve mettersi alla prova, deve lasciare il suo segno sul mondo. Per essere qualcuno, per essere onorato, per avere potere a ogni costo. Deve far entrare e comprimere in se stesso tutto ciò che sta al di là del suo misero sé. Verità, bene o bellezza sono necessità interiori che finge di ignorare, nella sua folle ricerca personale. L’intera tragedia drammatizza gli effetti fisici e psicologici dannosi dell’ambizione su coloro che cercano il potere fine a se stesso. Man mano che la trama si sviluppa, Macbeth è costretto a commettere sempre più omicidi. Per proteggersi dall’inimicizia e dal sospetto, diventa un sovrano tirannico. Avvolto dalla colpa, inghiottito da una scia di violenza, soffre di una forma sempre più acuta di paranoia delirante. Ad esempio, dopo aver ucciso il suo vecchio amico Banquo, vede il suo fantasma irrompere durante un banchetto. Egli innesca una diatriba insensata, sconcertando l’assemblea con la sua crescente follia. Inevitabilmente, un bagno di sangue e la conseguente guerra civile gettano rapidamente Macbeth e sua moglie nel regno della pazzia e della morte. Si può quindi concludere, come fa Shakespeare, che la vita è un racconto narrato da un idiota, pieno di rumore e furore, che non significa nulla.
Filosofare è riconciliarsi con la sua propria parola
Filosofare è riconciliarsi con la sua propria parola
Uno dei compiti principali della pratica filosofica consiste nell’invitare il soggetto a riconciliarsi con il proprio discorso. A qualcuno questa affermazione sembrerà strana, ma la maggior parte delle persone che parlano non amano ciò che dicono o, addirittura, non lo sopportano. “Come!”, ribatteranno gli obiettori, “La maggior parte delle persone parlano e parlano anche tanto!”. Constatazione inconfutabile. L’unica cosa da fare per rendersene conto è quella di collocarsi in un luogo pubblico e ascoltare il vocio delle conversazioni. Infatti, è vero che la maggior parte delle persone parlano e diremmo anche che si sentono obbligate a parlare. Una specie di compulsione è all’opera, perché le persone vogliono parlare, vogliono esprimersi e, allo stesso tempo, perché non sopportano il silenzio. Il silenzio è sospetto, pesa, ha un’apparenza triste; c’è bisogno o di una grande fiducia verso qualcuno, per accettare il silenzio in sua compagnia, o di una buona ragione, senza la quale il silenzio indicherebbe un certo disinteresse, una rottura del dialogo e perfino un conflitto. Così le persone parlano, in genere parlano di qualsiasi cosa: del tempo, degli avvenimenti, dei rischi inerenti alle loro piccole vite, si scambiano degli ossequi, dei luoghi comuni e, quando la discussione progredisce, ci si può anche fare delle confidenze intime, rivelarsi dei piccoli segreti, o condividere un dolore più personale, addirittura inconfessabile. Ciò nonostante, un primo sospetto riguardo il nostro piacere di “parlare” s’impone al nostro spirito non appena la discussione si entusiasma a causa di un disaccordo. Gli spiriti s’impennano, si riscaldano, si ostinano, si innervosiscono, diventano violenti o prendono una piega acrimoniosa. Se poi non siamo neanche abituati a questo tipo di svolta verso la violenza, potremmo stupircene: “Guarda! Finalmente trovano un’idea che conta, qualche argomento che sembra interessarli, per di più, visto che non condividono lo stesso parere, potrebbero discuterne, ma allora, perché sembrano vivere questo disaccordo come un dispiacere, o come un momento doloroso ?” Bisogna evitare le discussioni che fanno arrabbiare, proclama la saggezza popolare, ciò che grossomodo può significare tutti gli argomenti rilevanti, quelli che abbiamo a cuore, affinché ci si attenga allo scambio formale, certamente meno appassionante, ma anche meno rischioso.
AVERE RAGIONE
Qual è il problema qui ? Ognuno pretende di aver ragione. Sicuramente, non riflettiamo mai abbastanza né sul senso che può avere l’idea di “aver ragione”, né perché quest’idea ci stia così a cuore. Spiegheremo quindi progressivamente che è una questione di confronto con il proprio simile, di lotta, di potere, o altro ancora, e che è l’immagine di sé che costituisce la posta in gioco di questa lotta, spiegazione che senza alcun dubbio contiene la sua parte di verità. Ma quello che qui ci interessa, è un altro aspetto di tale questione, aspetto che certamente ha qualche legame con le intuizioni precedenti: l’ipotesi secondo cui l’essere umano, in fondo, apprezza poco la propria parola, ciò che inoltre spiegherebbe tanto le difficoltà inerenti alla discussione, quanto la facilità con cui questa può scivolare verso pieghe sgradevoli. In effetti, se una persona amasse la propria parola, tanto o poco che sia, se avesse fiducia nelle proprie parole, allora, perché il fatto di esser riconosciuta dal proprio vicino dovrebbe inquietarla a tal punto? Vorrebbe ottenere, non importa quel che sia, dal suo interlocutore in una maniera così insistente? Qui, non considereremo le discussioni che hanno una finalità ben definita, come quelle che per convinzione o per preoccupazione pratica hanno bisogno di convincere l’altro, dato che in tal caso la discussione non è più libera: non ha più la propria finalità in se stessa, desidera esplicitamente un oggetto senza il quale la discussione non avrebbe ragion d’essere e che ne rappresenta la finalità precisa ed affermata. Anche se pensiamo che, indirettamente, cerchiamo sempre qualche cosa, dal momento che, in generale, desideriamo ottenere una qualsiasi forma d’approvazione dalla persona alla quale parliamo. Ma la questione essenziale è quella di sapere il perché. Secondo la nostra prospettiva, qui percepiamo il meccanismo della “regina madre”, la matrigna di Biancaneve. “Specchio, specchio, dimmi chi è la più bella!”. Se la regina madre apprezzasse sufficientemente la propria bellezza, che bisogno avrebbe di domandare allo specchio se lei è la più bella, quale bisogno avrebbe di paragonarsi, perché dovrebbe preoccuparsi di questa povera Biancaneve? Evidentemente, esiste un rapporto sicuro tra il fatto di trovare bello e il fatto di amare, che sia l’altro o se stessi, e come ci ha già mostrato Platone nel Simposio, è difficile sapere se viene prima il bello o, invece, l’amore. Amiamo perché è bello, o troviamo bello perché amiamo? E per ritornare alla parola, quella che qui è messa in questione, cosa ne deriva? Trovo la mia parola brutta perché non mi amo? O invece, non mi amo perché trovo la mia parola brutta? Su questo punto, lasceremo sentenziare ognuno a suo modo, o altrimenti gli specialisti ne faranno un loro dibattito. Quanto a noi, in quanto filosofi praticanti, in fondo più preoccupati del pensiero in sé che della soggettività umana, a dispetto dei legami che li uniscono, ci domanderemo, così come abbiamo fatto all’inizio di questo testo, come potremmo riconciliare il soggetto con la propria parola. Non perché preoccupati di renderlo felice, o seguendo un progetto eudemonista, ma unicamente perché se il soggetto non si riconcilia con la propria parola, allora non potrà pensare.
PROTEGGERE LA PAROLA
Prima di spiegare quest’ultima frase, precisiamo che, secondo noi, il fatto di riconciliarsi con la propria parola non implica il fatto di trovarla meravigliosa, anzi, al contrario. L’estasi di fronte alla propria parola è troppo spesso l’espressione narcisista di una soggettività esacerbata, di un malessere, di un’assenza di distanza, di un’incapacità inerente allo sguardo critico. Un po’ come un genitore che vorrebbe vedere il proprio bambino eccezionale al fine di vivere, per procura, una felicità che altrimenti non saprebbe trovare in se stesso. Riconciliarsi con la propria parola significa accettare di vederla così com’è, di prenderla per ciò che è, di non attribuirle delle virtù che spesso non manifesta e, anche, di non provare a proteggerla dallo sguardo altrui, mediante la “timidezza”o con un’argomentazione eccessiva piena di “ciò che volevo dire” e di “voi non mi capite”. Riconciliarsi con le proprie parole è accettare di ascoltarle così come suonano alle orecchie altrui, è fare il lutto di un senso che è visibilmente assente dalla formulazione così com’è stata forgiata, significa desiderare di vedere le aperture, le rotture e i tradimenti delle parole che sono state pronunciate, accettarne la brutalità. Anche se fosse per il solo fatto che, rispetto a tutte le parole che ancora abbiamo voglia di esprimere, quelle che abbiamo già pronunciato ci dicono di più riguardo ciò che pensiamo e ciò che siamo. D’altronde, proteggere la propria parola è una delle prime motivazioni di ciò che nominiamo correntemente timidezza, affrettatamente e per semplicità. In effetti, un gran numero di questi “timidi” sono di fatto delle persone che possiedono un’elevata opinione di ciò che hanno da dire, ma che temono soprattutto che gli “altri”, coloro che li ascoltano, non condividano la loro stessa ammirazione nei riguardi del loro discorso. Per questo, considerano più sicuro e meno pericoloso astenersi dal parlare per poter così conservare, al semplice beneficio del dubbio, questa apparenza di genio, dal momento che possiamo attribuire qualsiasi virtù ad una sfinge, almeno fino a quando non abbia parlato. Ma ancora, se temono l’analisi critica delle loro parole, è perché loro stessi ignorano o fuggono questa pratica verso se stessi. Come i grandi ispirati, queste persone pensano di essere nel vero senza pronunciare neanche una sola parola e, senza esserne davvero coscienti, sono più attaccati ad un preteso “fondo” illusorio del loro pensiero che alle loro stesse parole. Così, cercheranno di evitare la critica del loro discorso riferendosi a quello che volevano dire, o abbandonando, o negando, in modo rapido, le loro stesse parole, al fine di chiudersi nel loro foro interiore o, in alternativa, lanciandosi in un discorso senza fine. Ma non accetteranno mai di prendere le loro parole come la sostanza stessa del loro pensiero: ciò significherebbe esporsi troppo.
PRENDERE IL RISCHIO DÌ PENSARE
Approfittiamo un istante dell’antinomia che abbiamo identificato nei nostri timidi. Opponendo il “fondo” del pensiero a delle idee già espresse, di fatto, non facciamo altro che opporre l’infinito al finito, perché opponiamo l’onnipotenza del virtuale alla finitudine del concreto, il potenziale indeterminato alla determinazione di ciò che è già attualizzato. Il virtuale può ogni cosa, tutto è possibile, tutto può ancora essere detto, mentre il concreto è qui, presente, investito nell’alterità del reale, radicato nel tempo e nello spazio. La parola che è detta è detta, lei è perché è specifica, implica una parola formata, un modo di essere, una particolare prospettiva. Anche se, per il solo fatto di pretendere che la parola non sia conclusa, possiamo sempre interpretarla, reinterpretarla, sovra-interpretarla, possiamo farle dire tutto ciò che vogliamo, ciò nonostante, questa parola ostenta già qualcosa di particolare e, almeno di non ricorrere alla più totale mala fede – ciò che è lontano dall’essere raro o escluso -, non potremmo più farle dire qualsiasi cosa o trasformarla nel contrario di ciò che già esprime. D’altronde, è questa stessa esclusione che disturba: il fatto che questa frase affermando, non importa quello che afferma, introduce necessariamente una negazione, come ci insegna Spinoza. Tutto ciò che afferma, dal fatto stesso dell’affermazione, nega. Nega sia per commissione: rifiuta il contrario di ciò che afferma. O altrimenti, nega per omissione, dimenticando di dire alcune cose, relegandole ad un secondo piano. Ma più di un locutore si divincolerà quel tanto che può per rifiutare questa dimensione negativa della parola, in particolare la seconda, più facile da occultare, rifugiandosi nella “totalità” del suo pensiero, in ciò che potrebbe ancora dire.
In questo senso, accettare la propria parola, o le proprie parole, come l’espressione del proprio pensiero o, meglio ancora, come la sostanza stessa del pensiero (Hegel), o come i limiti del pensiero (Wittgenstein), è l’equivalente psicologico, o filosofico, dell’accettare ciò che abbiamo fatto, ciò che abbiamo compiuto, come la realtà di ciò che siamo (Sartre). In effetti, possiamo sempre rifugiarci in “ciò che potremmo essere”, “ciò che avremmo potuto essere”, “ciò che vorremmo essere”, “ciò che ci ha impedito di essere”, “ciò che siamo stati”, “ciò che saremo”, e queste diverse dimensioni virtuali dell’essere o dell’esistenza, anche se hanno sicuramente un senso e una realtà, possono comunque rappresentare facilmente una sorta di alibi, di rifugio, di fortezza, per non vedere e assumere ciò che siamo. Il passato, il futuro, il condizionale, il possibile, o anche l’impossibile, costituiscono tanti meandri per occultare il presente e l’attuale. E se il nostro intento non è assolutamente quello di dissimulare o neanche di sottostimare queste diverse dimensioni, che a loro modo compongono la ricchezza dell’essere e della sua libertà di concepire, vorremo comunque mostrare la trappola che queste rappresentano e mettere in guardia contro l’utilizzo abusivo di questa molteplicità. Poiché, se per spiegare ciò che ci ha spinto alla soddisfazione dei desideri e alla ricerca del piacere abusiamo del presente, a discapito del passato, del futuro o del condizionale, per ciò che concerne la realtà delle nostre parole l’occultiamo molto facilmente e disinvoltamente.
MALTRATTARE LA PAROLA
Arriviamo a ciò che potrebbe quindi minacciare la parola timorosa. I Sofisti individuano in modo molto giudizioso due critiche essenziali contro Socrate, riguardo il suo modo di discutere, o piuttosto di interrogare. Prima di tutto, “Tu mi forzi a dire ciò che non voglio dire”. Poiché Socrate, dall’orecchio agguerrito, ascolta ciò che una frase qualsiasi dice e ciò che nega, ed esige dal suo interlocutore un interruzione, un arresto sull’immagine, affinché renda conto di questa frase, affinché si renda conto della propria frase. D’altronde, rendere conto per lui diventa praticamente la definizione stessa del pensare, o del filosofare, poiché ragionare indica proprio il dar le ragioni di qualche cosa. Socrate invita, quindi, il proprio interlocutore a ritrovare la genesi, per non dire l’archeologia, del suo proposito, al fine di coglierne il senso e la realtà. Non una genesi singolare, quella dell’intenzione del locutore, ma la genesi del senso, l’universalità del termine. Ora questa realtà, visibile attraverso le parole, è molto spesso dimenticata, o negata dall’autore delle parole, per il semplice fatto che non è pronto ad accettarne la realtà al di là dell’intenzione specifica che lo spingeva a pronunciarle. Intenzione che – ahimè per lui! – non è che una parte infima e limitata della realtà offerta attraverso queste parole: l’intenzione è riduttrice. E stranamente, l’uditore attento, estraneo all’intenzione delle parole, percepirà meglio questa realtà “oggettiva” della parola, poiché non sarà animato e accecato dal desiderio personale che l’ha motivata. Ma il locutore, ben inteso, spesso rifiuterà l’interpretazione dell’uditore, che spesso considererà come intempestiva ed intrusiva, se non addirittura illegittima ed alienante. Si considererà l’unico detentore del senso delle proprie parole, pretenderà confiscare ogni interpretazione a favore della sua sacrosanta intenzione. Come se la nostra parola fosse riducibile al semplice senso che noi pretendiamo accordargli, spesso in modo tergiversato ed assurdo. Questo sradicamento da sé, questa lacerazione dell’essere tra un sé e la parola, ritenuta esserne la proiezione, è il crogiolo stesso della pratica socratica: sondare l’abisso dell’essere, lavorare l’anfrattuosità che costituisce la nostra singolarità frantumata. Come non ribellarsi contro un intervento così abusivo, contro una proposta così tendenziosa? Prospettiva insopportabile nello psicologismo diffuso.
La seconda critica, assolutamente conforme alla prima, è “Tu vivisezioni il mio discorso in piccoli frammenti”. Sentimento sgradevole che suscita questa dissezione con i bisturi di un insieme, preteso armonioso, nel quale abbiamo messo molto sforzo e amore, piccolo pezzo di essere individuale, briciola amabile della nostra persona, composto con grazia, assemblaggio che presentiamo al mondo come un campione scelto di noi stessi. E se la nostra messinscena verbale ci lascia insoddisfatti, se non la consideriamo all’altezza del nostro pensiero, o non totalmente adeguata ad esso, allora siamo ancor più sensibili all’analisi che qualcun altro potrà farne, siamo più nervosi rispetto alla sorte che potrebbe infliggergli. Ed è una buona ragione per protendere ad essere insoddisfatti del nostro discorso: il fatto è che nel nostro discorso cerchiamo sempre di “dire tutto”, “includere tutto”, in ogni caso lo pretendiamo. O si tratta di dire la verità più compiuta di ciò che pensiamo, o di dirne la totalità, l’integralità, attraverso l’enumerazione infinità e generalmente confusa delle cause e delle circostanze. Cerchiamo di coprire tutti gli angoli, di prevedere le obiezioni e di prevenire i giudizi critici, agghindando la nostra parola con ogni paravento possibile, al fine di renderla imparabile. Ora, cosa fa Socrate: prende un piccolo pezzo della nostra opera d’arte, che sceglie nel modo più arbitrario, o incongruo, al fine di esaminarlo e di triturarlo in ogni senso, ignorando totalmente ciò che abbiamo potuto affermare in un altro momento, non fosse che all’istante precedente. Lui ignora l’estensione o la bellezza del nostro discorso e pretende interrogarci su un aspetto specifico di ciò che abbiamo abbordato, come se non avessimo detto niente altro, esigendo di rispondere con una parola corta e precisa, se non addirittura con un semplice “si e no”, riducendo tutta l’ampiezza del nostro pensiero ad un semplice giudizio: quello di un assentimento o di un rifiuto ad un’idea specifica. Idea specifica che sicuramente s’incastra in una sorta di tranello infernale che conduce alla critica precedente: l’interlocutore ci obbliga ad affermare ciò che non abbiamo detto e che non desideriamo dire. Decontestualizza la parola e in seguito domanda di prendere una posizione riguardo la radicalità del suo senso.
INQUIETUDINE DELLA PAROLA
Potremmo credere che è il fatto di subire un abuso interpretativo che infastidisce il locutore, preoccupato che non si faccia dire alle sue parole ciò che lui non desidera dire, o altra cosa rispetto a ciò che desidera dire, ma ci sembra che la questione sia più profonda o più “grave” di ciò. In effetti, per destabilizzare il suo interlocutore, e tutti potranno farne esperienza, basta a volte domandargli di ripetere ciò che ha appena detto, assumendo un’aria interessata. “Puoi ripetere ciò che hai appena detto”, e vedremo il nostro uomo prendere un’aria sorpresa e cominciare subito a difendersi, senza che l’abbiamo il minimo criticato. Molto spesso non ripeterà ciò che ha detto, in primo luogo perché lui stesso non ha realmente fatto attenzione alle sue parole, ciò che in sé è già significativo. O perché sentendosi minacciato vorrà giustificarsi piuttosto che ripetere le parole già pronunciate, o altrimenti, trasformerà le sue parole iniziali, cominciando la sua frase con “Ciò che volevo dire”. Una sorta d’inquietudine o anche di panico lo invade, senza che tuttavia, e oggettivamente, nulla indichi una critica qualsiasi. Anche se qui possiamo evocare a mo’ di spiegazione, o di circostanza attenuante, una sorta di traumatismo sociale. Gli esseri umani fanno così poca attenzione alla parola dell’altro, o l’ignorano perché, semplicemente, sentono che ciò non li riguarda, o la contestano perché le loro idee sono differenti da quelle dell’altro, o peggio ancora, le rifiutano semplicemente perché sono gli altri che pronunciano le parole incriminate. Senza dubbio, è così che funziona questa dinamica sociale, vettore del traumatismo precedentemente citato. Mancando tutti del rispetto per la parola dell’atro, ogni locutore è più o meno coscientemente convinto che il suo uditore cercherà l’occasione per criticarlo. Un’altra sfumatura d’apportare alla nostra questione : la dimensione culturale. Infatti, alcune culture sono più predisposte alla critica che altre, ma quelle in cui la critica è considerata come una carenza delle buone maniere e delle convenzioni sociali esprimeranno la loro reticenza, il loro disprezzo, o il loro disinteresse, sia con un’educata approvazione, sia con l’espressione manifesta di un interesse, che tutti sanno sostanzialmente superficiale, effimero, addirittura ipocrita. Ma ci siamo accorti che le società in cui le maniere sono più cortesi non sono necessariamente quelle dove regna la minor insicurezza quanto allo statuto della parola individuale. Diciamo che ogni gruppo umano ha i propri modi d’autorizzare, di giustificare, o anche d’incoraggiare il discredito dell’altro.
PENSARE MEDIANTE L’ALTRO
Ritorniamo a Socrate. Stranamente, lui si interessa moltissimo alla parola dell’altro. Aggiungiamo anche che non potrebbe pensare senza l’altro. Altrimenti, potremmo domandarci perché quest’uomo dal viso così grottesco trascorreva il suo tempo a ricercare la compagnia dei suoi simili soprattutto in vista di praticare l’interrogazione filosofica. Non aveva nulla di meglio da fare, quest’uomo dallo spirito agile e sagace? Perché perdere il proprio tempo con chiunque e a proposito di, quasi, qualsiasi cosa? Alcuni dei personaggi che Platone ci descrive non sono molto brillanti, perché per Socrate la ricerca della verità non conosce molti limiti, né presupposti stabiliti. Tutto è buono, quando si tratta di scavare il bene, il vero o il bello, e se c’è ostacolo, quest’ostacolo diventa il crogiolo stesso dell’essere e dell’uno. Socrate vuole fare opera di carità? Milita per un’umanità migliore? Si annoierebbe da solo, impacciato in una solitudine filosofica, alla guisa del mitico filosofo della caverna? Vuole convincere? In fondo, per lui anche la verità non è che un pretesto. Ha bisogno di cercare qualche cosa che ignori, sondare l’anima umana e, se molti filosofi sondarono la loro, lui si sente spinto dal suo “démone” a esplorare tutte quelle che passano, le une e le altre, nel contempo, più promettenti, più deludenti e più ricche. Non bisogna cercare qui una teleologia: Socrate non cerca niente, semplicemente cerca, cerca di cercare.
Ma questa ricerca gli procura molte noie. Prima di tutto, perché senza volerlo e, senza dubbio, senza saperlo, o senza volerlo sapere, rompe i codici stabiliti. Troppo occupato dal suo desiderio, accecato dalla sua passione, non sa nulla né vede nulla, lui non esiste più: lui cerca. Cane da caccia che insegue la sua preda fino alla sua tana, pesce torpedine che paralizza chi entra in contatto con lui, tafano che pizzica e tormenta colui che lo avvicina: le metafore persuasive non mancano per spiegare o giustificare il suo assassinio. La morte di Socrate, gesto inaugurale della filosofia occidentale, non è totalmente inevitabile? Ma perché il fatto di questionare l’altro potrebbe rendere la sua presenza così insopportabile per i suoi concittadini ateniesi, che nel mito socratico non rappresentano nient’altro che l’essere umano nella sua generalità? Certamente alla lunga, vivere con un tale personaggio può rivelarsi difficile, in particolare per i suoi parenti, ma perché si attirerebbe un tale odio? Sicuramente, un odio che non si attirerebbe se si accontentasse di essere in disaccordo con i suoi simili e neanche se non facesse che insultarli, come i cinici. Ma il questionare filosofico è – bisogna crederlo – decisamente più corrosivo dell’affermazione. Si interessa da troppo vicino alla parola dell’altro, e l’altro in verità, contrariamente a ciò che spesso proclama, non desidera che ci si interessi da troppo vicino alla sua parola. Poiché l’accesso che conduce dalla sua parola fino al suo pensiero è troppo diretto, il legame tra il suo pensiero e il suo essere è troppo esplicito. E se l’individuo, a partire dalla sua più tenera infanzia, mette tutto in opera pur di dimenticare la propria finitudine, la sua imperfezione, la sua infermità e immoralità, non è per accettare che una specie di perverso sbarchi e, in modo irrispettoso, intrusivo e brutale, domandi come si nomina questo handicap, o questa piaga che con molto sforzo nascondiamo, mentre i vicini girano pudicamente e automaticamente lo sguardo se mai qualcosa dovesse esser svelato solo un tantino. Che specie simpatica che è quella dell’uomo, che spende tante energie per nascondere la sua natura individuale, realtà di cui si vergogna, una natura specifica che arriviamo a considerare, né più né meno, come una di quelle malattie dall’origine incerta di cui bisogna nascondere sia l’esistenza che la causa. É senza dubbio per questa ragione che lui ignora la sua vera natura, quella d’essere umano.
CATTIVE MANIERE
In conseguenza alla realtà socratica e ai conflitti che genera, risulta il termine finale – o iniziale – della messa in accusa: “Tu devi avercela con me”, o altrimenti, “Le tue intenzioni devono essere cattive”. Poiché, non è naturale interessarsi in tal modo ai discorsi e al pensiero altrui, non è normale interrogare in una simile maniera, invece di dire e di affermare, decorticare in un modo così abusivo la più piccola parola che ascoltiamo è considerato indecente. Una rottura delle tradizioni che mette in questione l’andamento abituale. Perché, se un tale comportamento non fosse considerato perverso, allora, non potremmo che ammirare un simile uomo, un saggio capace di una tale ascesa, di una simile indigenza, animato da una tale fiducia nell’altro e che, quale che sia il suo consimile, crede in permanenza di poter scoprire la verità. Giacché, è ciò che in fin dei conti anima Socrate. Ma ahimè, la fragilità umana, la sua insicurezza, percepisce questo procedimento fiducioso e seducente come un’aggressione. Questionare qualcuno è dichiarargli la guerra, è volerlo umiliare, significa provare a ridurlo a nulla o, in breve, è obbligarlo a pensare e, soprattutto, obbligarlo a pensare a se stesso. Conosci te stesso! Così tu conoscerai l’universo e gli dei. Infatti, che significherebbe l’oggetto conosciuto se ignorassimo lo strumento del pensiero, lo spirito stesso, come lo ricorda Hegel? Ora, è precisamente la conoscenza del nostro spirito che ci spaventa. Poiché, se siamo sedotti quando qualche filosofo che parla bene ci spiega l’apertura dell’anima umana, considerata nella sua generalità, o quando comprendiamo, o intravediamo l’accecamento o la banalità nella quale vivono i nostri concittadini, tuttavia, quando ci accorgiamo che il discorso si indirizza a noi personalmente, allora, ci smontiamo violentemente. Questo non si fa!
ACCETTARE LA FINITUDINE
Dunque, come riconciliarsi con la propria parola e quindi riconciliarsi con se stessi, se non accettando di vedere le aperture e le tare che affliggono il nostro discorso, se non contemplando le rigidità che ne costituiscono l’elaborazione e intravedendo i limiti che ne rappresentano l’estensione? Riconciliarsi con la propria parola, significa accettare la finitudine, l’imperfezione, a rischio di un profondo sentimento di ridicolo. Non amiamo i nostri genitori e i nostri vicini a discapito dei loro difetti o dei loro tic? Dobbiamo essere ciechi per amare coloro che ci circondano? Se è questo il caso, rischiamo seriamente di smontarci non appena gli occhi si aprano, per effetto dell’usura del tempo o in contraccolpo a qualche avvenimento fortuito e generalmente drammatico. La stessa cosa accade nel rapporto con noi stessi. Possiamo sicuramente provare, coscientemente o no, a trattenere l’illusione di una trasparenza, di un benessere, di una soddisfazione, di una contentezza qualunque, rischiando la compiacenza effimera, o frammentaria, e una delusione certa. É qui che Socrate in questione, o il suo equivalente, lo straniero dei dialoghi tardivi, può esser considerato come il nostro vero amico. Colui che osa parlarci in assoluta franchezza, colui che osa puntare il dito verso l’altrove. Quest’altrove è quello che ci obbliga a portare dei paraocchi, poiché come il classico cavallo da carretta, non potremmo sopportare certe realtà laterali: ci renderebbero nervosi. Guardiamo dritto davanti a noi e perseguiamo il nostro cammino senza preoccuparci delle richieste che arrivano dai margini e che ci farebbero esitare, dubitare, che potrebbero addirittura paralizzarci.
Socrate ci interpella: “Ehi amico, vedi quello che accade qui?” “Che pensi di questo, o di quello?” Così ci ascolta mentre rispondiamo, con la falsa ingenuità che lo caratterizza. Ma l’umano è furbo, così come il cane o il felino, lui sa sentire il vento. Istintivamente vede la bestia sopraggiungere. Ed è qui che si trova l’esperienza cruciale, il momento della decisione, quella che separa gli umani dagli umani. Vuole reagire “biologicamente” e fuggire o aggredire colui che minaccia la sua “integrità” esistenziale? O invece, percepirà quest’uomo dall’aspetto e dal discorso strano come il vero amico che non ha mai incontrato? L’amico che non ha amici. L’innamorato senza amante. Colui che è animato da una passione senza oggetto. O invece, ne è lui stesso l’oggetto, anche ignorando chi ne sia il soggetto, quale ne sia il soggetto. Ben inteso, è un amico divertente, dall’umorismo più che strano: qual é quest’ironia che è solo una bugia? Come possiamo dargli fiducia? E’ carne o pesce? E a mo’ di discorso, ci interroga. Peggio ancora, ci costringe alla scelta miserabile – se ce n’è veramente una – tra un “si” e un “no”, tra un “questo” e un “quello”. Perché è visibile che molte di queste domande sono tranelli. Ma allo stesso modo, poiché noi ci siamo lanciati in questa prospettiva impossibile, vediamo come quest’uomo, che non ha nulla di umano, possa ancora volerci del bene. Giustamente, non ce ne vuole, del bene. É qui il suo principale interesse. Lui, non vuole che il suo proprio bene, lo cerca, ha bisogno di noi, lo dice, non è che un quarto d’ironia, quando domanda a tutti e a ognuno di diventare il suo maestro, il maestro che cerca da sempre.
Sicuramente, a termine, la frequentazione di un tale essere non può diventare che insopportabile. Ma ha mai domandato a qualcuno di vivere con lui? I suoi interlocutori sono numerosi, sembra che ne cambi frequentemente con il susseguirsi dei dialoghi, e ciò non deve essere una casualità. Coloro che dice di amare cambiano con il succedersi dei dialoghi. Platone, che farà di quest’essere la sua prelibatezza, prima di lanciarsi verso la propria traiettoria, l’ha conosciuto solo per breve tempo. Ciò spiega senza dubbio la passione che lo anima. A termine, l’effetto corrosivo dell’interrogazione non può che provocare l’allontanamento.
UN AMICO CHE NON VUOLE IL NOSTRO BENE
Tuttavia, ciò che rende Socrate vivibile, come abbiamo già detto, ciò che lo rende un vero amico, è proprio il fatto che lui non vuole il nostro bene. Non vuole convincere di nulla, non desidera mostrarci il vero cammino. Ci questiona, semplicemente, e ci invita a vedere, a vedere ciò che non vediamo, ciò che non vogliamo vedere, a vedere ciò che è insopportabile. In questo senso, ci invita a morire. Poiché se filosofare è apprendere a morire, qui non è questione di una morte ulteriore e finale, ma di quella di ogni istante. Quella che incombe, così come la spada di Damocle, al di sopra delle nostre teste stordite dall’infatuazione del quotidiano. Divertimento pascaliano. Le nostre idee sono costituite da queste molteplici opinioni che ci bastano per giocare le regole del gioco. Gioco della società, gioco della famiglia, gioco dei desideri e delle ambizioni personali, ricerca della felicità, della grande o della piccola felicità. La perseveranza nell’essere, il “conatus” spinoziano, è troppo spesso concepito come quello di una pura esteriorità. Vivere assume generalmente il senso di una molteplicità di obbligazioni, interne ed esterne, che si tratterebbe di soddisfare, sia bene che male. Pertanto, l’essere non è che uno, per Socrate come per Spinoza, anche se questa unità non esclude nessuna molteplicità, anzi al contrario. Tuttavia, il frammento ne è la sostanza viva, poiché non si tratta neanche di prendere il volo verso un al di là dell’al di là dove si anniderebbe ogni realtà.
Come ben racconta il mito della caverna, il filosofo che noi siamo non saprebbe vivere fuori dalla caverna: è il suo luogo di predilezione. É in noi l’amico che ci da una cattiva coscienza, colui che lasciamo parlare per riderne alla prima occasione, e dopo ci arrabbiamo per farlo tacere. Poiché non siamo sempre – e spesso – dell’umore adatto per farci interrompere o per farci turbare il nostro piccolo tran-tran, per farci travolgere l’equilibrio instabile che bene o male riusciamo comunque a far funzionare. Filosofare, è pensare l’impensabile, un impensabile che non ci permette affatto di esistere. Ci obbliga all’evidenza, al certo, all’atteso. Preferisce il certo, ama il probabile, e teme l’impossibile. Di quando in quando, per inoperosità, per stanchezza, o per risorgiva dell’essere, autorizza il sorgere dello straordinario, dell’imprevisto, dell’inaudito. A dosi omeopatiche, o per un tempo ristretto e spesso in modo perverso. L’amore, il divertimento, la visione mistica, l’ebbrezza, sono altrettante maniere con cui la vita si distrae da se stessa, per gioco e per oblio. La filosofia esige una simile rottura in modo cosciente, deliberato e costante. Ovviamente, ognuno avrà conosciuto, in un momento o in un altro, un attimo filosofico, quest’istante in cui il senso precipita, in un altro senso o nell’insensato. E il vissuto di quest’istante potrà generare, anche se raramente realizzare, un desiderio d’altrove, non l’altrove in cui vivere, ma l’altrove che la vita. Anche se qualcuno, anche qui lo spirito è straordinariamente furbo, cerca di instaurare una vita fuori dalla vita, al di là della vita.
Riconciliarsi con la propria parola, così come riconciliarsi con i propri vicini, implica il fatto di non avere più delle aspettative e, quindi, di non essere più frustrati o delusi, o meglio ancora, di non poter essere delusi e frustrati. Ciò, comunque restando, non implica assolutamente l’abbandono dello spirito critico, anzi al contrario. Perché, molto spesso, ciò che impedisce di impegnarci in un’analisi corrosiva e profonda delle intenzioni e degli esseri, è il timore della perdita, attraverso il timore del contrasto, della ferita, o semplicemente quella della suscettibilità oltraggiata. A partire dal momento in cui non sussiste nessun desiderio di conservare un attaccamento altro che quello legato alla ricerca comune della verità, generata per se stessa, cosa resta da temere ? Molto naturalmente, se non è sottoposto a maltrattamenti nel suo impeto, se non ha preso l’abitudine ad ostacolarsi di pensare, lo spirito pensa: lui sa ciò che percepisce in un rapporto intimo e dinamico con la matrice dei pensieri che ha costituito durante gli anni. Ben inteso, queste matrici saranno più o meno elaborate, più o meno fini e più o meno fluide, ma costituiranno comunque per ogni soggetto pensante l’auna/misura di ogni nuovo pensiero, il riferimento attivo, il luogo originario, quello da cui tutti i pensieri provengono, dove tutti i pensieri fanno ritorno. È d’altronde in questo senso che la parola è accesso all’essere, che la parola finisce di essere un discorso. Poiché in quest’intimità con se stessi, l’oggetto del pensiero non è più un oggetto, ma è il soggetto stesso. Il soggetto pensante diviene, allora, l’oggetto diretto del pensiero, la mediazione diviene il luogo dell’immediato, di un immediato cosciente e riflesso.