Filosofare é cessare di vivere

FILOSOFARE É CESSARE DI VIVERE

goldfish jumping out of the water1- L’interruzione della narrazione

«Quelli che si consacrano alla filosofia in maniera appropriata non fanno né più né meno che prepararsi a morire e allo stato di morte» (Platone).

«Il Tao Te King è così misterioso che si è disposti a morire appena lo si è sentito» (Confucio).

«Cambiare la mia idea? Biologicamente non posso!» (Carmen).

Se filosofare significa apprendere a morire, apprendere come morire, questo non può avvenire in altro modo che esercitandosi a morire. La nostra proposta è che filosofare significa morire, al fine di acquisire una vera esperienza della morte. In questo testo tenteremo dunque di mostrare che filosofare è cessare di vivere, o in altri termini, di mostrare come la filosofia si oppone alla vita.

DUE FILOSOFIE

«La filosofia è la vita» è un’espressione che sentiamo comunemente fra gli adepti di una filosofia ancorata al quotidiano. Tuttavia, in effetti, ci sembra sia esattamente il contrario. Questo è d’altronde il modo abituale di procedere dei luoghi comuni: essi tendono a mettere la realtà in disordine. Probabilmente a causa della loro intenzione, della loro ragion d’essere: essi nascondono la realtà perché il loro autore si senta meglio, più adeguato. E pensandovi un istante ciò potrebbe costituire una delle ragioni della così relativa popolarità che conosce la filosofia ai nostri giorni, la quale risulta essere considerata semplicemente come desiderio di buona coscienza, speranza che lo spirito si senta comodo e disteso. E’ una concezione comune della suddetta filosofia: rende «cool», placidi e leggeri. Ci sembra dunque utile, come ci accade spesso, prendere in contropiede questo principio, effettuare il rovescio del rovescio, se non altro per esaminare meglio l’effetto prodotto dall’operazione. In questo caso, come per numerosi altri, ciò funziona piuttosto bene, poiché ci sembra che l’espressione “filosofare è cessare di vivere” è una formula sensata e interessante. Certamente abbiamo ora un altro significato della filosofia, opposto al precedente, ma la filosofia implica il rovesciare le idee ricevute, il turbamento, a rischio di originare l’inquietudine della cattiva coscienza, una sorta di dolore psicologico legato a una morte simbolica. Siamo coscienti che abbiamo qui opposto e radicalizzato due concezioni classiche della filosofia. Potremmo nominare la prima “volgare” e l’altra “elitaria”. Senza tentare di stabilire una gerarchia fra di esse, poiché “volgare” potrebbe divenire “popolare”, “pedagogica” e “elitaria” potrebbe divenire “oscura” o “inutile”. Tuttavia, col fine di difendere una filosofia “dura”, affermiamo che se la filosofia fosse vita, riempirebbe gli stadi di calcio, rifornirebbe i supermercati, la ritroveremmo nei sondaggi d’opinione, apparirebbe in televisione negli orari dei grandi ascolti, e probabilmente i filosofi ben assisi apparirebbero meno polverosi e parlerebbero a tutti – benché un po’ di tutto ciò si sia prodotto nel corso degli ultimi anni, per diverse ragioni!

Esaminiamo le diverse maniere in cui la filosofia si oppone alla vita. Innanzitutto, riprendendo il refrain classico “filosofare è apprendere a morire”. Platone, Cicerone, Montaigne e molti altri hanno affermato, scritto e riscritto, che la preparazione alla morte costituirebbe in effetti il cuore dell’attività filosofica, l’esperienza filosofica per eccellenza. Chiaramente, possiamo qui opporci a certi filosofi come Spinoza e al suo concetto di conatus: ogni essere vivente tende a preservare nell’esistenza, o alla sua celebre citazione: “l’uomo libero non pensa a nient’altro che alla morte”. O a Nietzsche che afferma che la vita stessa è il nocciolo del vero pensiero, quando scrive che il corpo è la grande ragione e lo spirito unicamente la piccola ragione. O anche a Sartre che, sulle tracce epicuree, afferma che la morte è esteriore all’esistenza, poiché è assenza o cessazione della vita. Ad ogni modo, per principio, in questo campo o su certi temi, poiché nessuna proposizione semplice può ottenere l’accordo unanime dei filosofi, non ci preoccuperemo di un tale consenso sul tema: esamineremo soltanto la transitabilità di certe proposizioni. D’altronde, nel corso della nostra peregrinazione, ci riconcilieremo probabilmente con i nostri filosofi dell’ “opposizione”. Innanzitutto poiché in questi diversi filosofi il concetto di finitudine è importante ed è precisamente su questa strada che ci auguriamo di invitare il lettore. Tale concetto potrebbe infatti servire da definizione al filosofare: esaminare le diverse poste in gioco del pensiero al fine di subire e vivere la finitudine: esistenziale, epistemologica, psicologica…

IL SAGGIO NON HA DESIDERI

Uno degli ostacoli più comuni al filosofare è il desiderio, sebbene il desiderio stesso si incontri nel cuore della dinamica filosofica, come in Platone. Tuttavia per quest’ultimo, la perversione della filosofia si effettua giustamente nel processo d’inversione dell’erotico: quando il desiderio abbandona il suo oggetto più legittimo per un filosofo, la verità o la bellezza, al fine di cercare delle soddisfazioni più immediate, quali il piacere dei sensi, la continuazione del potere e della gloria, l’accumulazione delle ricchezze o delle conoscenze, la cupidigia, etc. Non è tanto l’anima a cessare ogni attività intellettuale, ma quando queste mete “terrestri” non entrano nel quadro della sua vocazione “normale”, di natura “celeste”, allora la sua attività è pervertita da considerazioni di natura inferiore; quando tale filosofo, attraverso la cui perversione diviene sofista, ottiene l’accordo della maggioranza o diviene popolare fra i concittadini, è unicamente perché i comuni mortali non sanno a cosa somiglia un “vero” filosofo.

Il profano è impressionato dalle semplici apparenze, dal simulacro del pensiero, è meravigliato dai salti rischiosi effettuati da colui che, per Platone, non è nient’altro che un giocoliere, un simulacro della filosofia.

La vita ha molto a che fare con il desiderio perché essa si compone di bisogni, si consacra al perseguimento di numerosi oggetti che soddisferanno tali bisogni, soffre l’angoscia di non ottenere gli oggetti che soddisferanno tali bisogni, teme il dolore che sopravviene quando i bisogni sono soddisfatti, attraverso la paura della mancanza e della perdita. Anche il futuro è preoccupazione, la speranza sfiora sempre la disperazione. Sembra che la vita abbia una stupefacente capacità di creare nuovi bisogni e dunque nuovi dolori, in particolare nell’umano, in cui la portata esistenziale è molto più vasta di quella delle altre specie: lo spirito umano può anche considerare l’infinito, visione appassionante in effetti, ma che può divenire un vero incubo nella sua capacità di produrre una lista infinita di desideri irrealizzati. Desideri che sorgono a volte unicamente per la semplice e buona ragione che essi sono totalmente impossibili da realizzare. Se la maggior parte delle specie soddisfacessero i bisogni particolari propri alla loro natura – la gallina non desidera andare sott’acqua, l’elefante non pretende di volare – il genere umano non conoscerebbe alcuna frontiera alle sue pretensioni, alle sue volontà, alle sue ambizioni, e allo stesso modo non conoscerebbe alcun limite ai suoi dolori. Si potrebbe sostenere l’argomento che l’uomo appagherebbe più desideri di ogni altra specie e potrebbe dunque sentirsi più soddisfatto, ma sembra che la sua immaginazione e la sua cupidigia sorpassino di molto le proprie capacità ad essere soddisfatto. L’esistenza umana è per questo un problema in sé, benché preoccupati dalla nostra sopravvivenza e dal nostro buon umore, abbiamo una certa fobia, mentre il filosofare si rallegra di questi problemi.

Sebbene la filosofia abbia percorso, nello spazio e nel tempo, diversi cammini, sebbene abbia proposto numerose e differenti combinazioni del reale e della soggettività, esistono tuttavia alcune concordanze fra le diverse modalità attraverso le quali i filosofi hanno tentato di risolvere la capacità eccessiva dell’uomo a rendersi infelice. Ricorderemo su questo terreno di intesa “riconciliazione con se stessi”. Ad esempio il carpe diem epicureo, che invita ognuno ad apprezzare il momento presente; il piacere puro ed idealista di pensare e ragionare; la prospettiva di un mondo o di una realtà extraterrestre che modera, trattiene o annienta i desideri comuni – cosa che troviamo ugualmente negli schemi religiosi; l’impegno ad accettare umilmente la realtà, malgrado la sua asprezza o grazie ad essa; l’amore dei concetti trascendenti quali la verità, la bontà o la bellezza, contemplazione che sublima ogni dolore e soddisfa l’anima; la proiezione di ognuno ad un futuro ritirato dalla prossimità; il godimento dell’azione pura, fisica o mentale, trasformatrice di sé o del mondo; o ancora la liberazione da ogni speranza di gratificazione. Attraverso tali molteplici proposte, i filosofi hanno tentato di fornire agli uomini diverse ricette per conoscere ciò che si potrebbe chiamare una “vita migliore”. Chiaramente, non si potrà sorvolare tale occasione senza esclamare: “Vede, la filosofia è vita! L’ha detto lei stesso: la filosofia ci aiuta a vivere una vita migliore”. Ma la nostra critica dimentica qui qualcosa di fondamentale. Noi poniamo al critico le seguenti questioni: perché questi filosofi hanno avuto così poco successo? Perché queste filosofie sono così difficili da vivere? Le filosofie non offrono delle proposte opposte alla concezione comune della vita, tanto che le religioni di massa devono rendersi conto che i messaggi che esse emettono, anche quando sono riconosciute come parole divine, possono difficilmente essere obbedite e seguite alla lettera? Fortunatamente, indubbiamente, poiché la radicalità del loro discorso implica che la loro funzione è quella di un pungolo critico piuttosto che di una guida pratica nell’esistenza. L’umanità non sarebbe sopravvissuta all’applicazione intransigente dei loro precetti…

Esaminiamo perché i filosofi non sono così facilmente seguiti, per dire il minimo. Come risposta globale a tale domanda, possiamo proporre l’ipotesi seguente. I filosofi ci domandano di abbandonare ciò che è più caro al nostro cuore, o piuttosto alle nostre viscere. In quale maniera ce lo domandano? La caratterizzazione comune alla loro domanda è di invitarci ad abbandonare l’evidente o l’immediato, in favore di qualcosa d’altro, di un’altra realtà, comparativamente più lontana, più impalpabile, più impercettibile e più difficile da spiegare. Si pensi al giusto mezzo, alla vita media, alla saggezza, l’autonomia, la perfezione, la realtà, l’amore, la coscienza, l’assoluto, l’alterità o l’essenza: questi concetti non possono che costituire delle semplici parole, difficili da perseguire, molto eteree rispetto al cibo, al piacere, alla danza, alla distrazione, al lavorare per vivere, alla riproduzione, all’apparenza, alla gloria, all’ebbrezza, alla popolarità, etc. Anche l’ingiunzione di vivere nel momento presente, che potrebbe sembrare come qualcosa di facile da realizzare, poiché non dovremmo più inquietarci d’altra cosa che dell’immediato, è un compito realmente ascetico e meraviglioso che non piace ad un essere inquieto rispetto al futuro e alla sua imprevedibilità. Per tanto, vivere il momento presente durerà naturalmente poco tempo, poiché nell’arco di breve termine, altre dimensioni del tempo, compreso il desiderio d’eternità, busseranno alla porta in modo insistente. E’ lo stesso per l’amore, che sembra eternamente popolare. Poiché, quando guardiamo più vicino le sue manifestazioni correnti, vi identifichiamo ogni sorta di calcolo sordido, così come risentimenti, gelosie, desideri di possesso o altri comportamenti grossolani o perversioni umane dei concetti archetipali dell’amore, di cui l’essenza è quella del costume romantico e ideale.

Inoltre otterremo una visione interessante del problema, del divario tra la vita e la filosofia, quando ci si accosta alla via dei nostri filosofi ufficiali: l’incredibile genio di Leibniz, al cui funerale nessuno ha partecipato, Kant che visse tutta la sua vita solo con il suo servitore, Wittgenstein che visse da eremita, Nietzsche divenuto folle, Socrate ucciso dai suoi cittadini, Bruno condannato al rogo, benché, dobbiamo ammetterlo, certi, come Hume o Aristotele, abbiano raggiunto successo, gloria, agio.

Esaminiamo ora altri aspetti della nostra affermazione concernente la tesi del filosofare come cessare di vivere.

FERMARE LA NARRAZIONE

La vita è una sequenza, un susseguirsi di fatti, una serie di avvenimenti. Quando qualcuno racconta la propria vita agli amici o quando scrive una biografia, racconta una storia: è successo questo, poi quello, e infine quell’altro ancora, un ultimo avvenimento che conclude la narrazione. In generale, gli umani amano raccontare reciprocamente “la storia della loro vita”, sotto forma di aneddoti, a volte perché cose importanti si sono prodotte, ma ancora più spesso per fornire un resoconto dei dettagli più triviali e poco interessanti semplicemente per il piacere di conversare con i propri vicini; per esistere un po’ di più, e pensare un po’ meno, diranno le cattive lingue. Il principio è identico nel fatto di voler conoscere e ascoltare “la storia della vita” degli altri, come lo mostrano le adunanze della gente per parlare dei vicini o delle celebrità, quella propensione insaziabile per il voyeurismo. Un’altra abitudine in cui percepiamo che la nostra vita è un’immensa narrazione è il modo in cui concepiamo le nostre attività, spesso catalogate in un’agenda, la quale stabilisce ciò che dobbiamo fare un tale giorno, ad una tale ora, per esempio una lista di compiti manageriali, come alzarsi, lavarsi, correre per negozi, assicurare diversi appuntamenti e finanche l’indispensabile programma televisivo, che ritma spesso la vita familiare. Così come ci inquietiamo per ciò che non abbiamo fatto, dovremo fare e probabilmente non faremo mai! Così tante cose si iscrivono in qualche modo nella lista infinita che compone la nostra esistenza, di cui il tempo diviene di fatto il principale ed ultimo parametro, e l’alibi per eccellenza. E’ una delle ragioni per le quali è così facile sentirsi eterni o dimenticare la nostra propria finitezza: i nostri desideri resistono e cospirano con forza contro un tale limite. Se avessi il tempo, cosa non farei! L’esistenza si enuncia dunque come una larga lista di avvenimenti più o meno insignificanti e una lista ancora più lunga di speranze, di attese e di timori.

In che modo la filosofia si oppone all’idea di racconto? Su questo punto alcuni filosofi, soprattutto contemporanei, vorranno difendere una visione più fenomenologica dell’esistenza e promuovere il racconto. Tuttavia, una delle grandi rivoluzioni dell’avvenimento filosofico, come è apparso nel “momento” greco antico che certi considerano – a torto e a ragione – come la nascita della filosofia, era il passaggio dal mito al discorso astratto.

Fino a prima, tutto – la creazione del mondo, l’esistenza dell’uomo, i fenomeni naturali, i problemi morali e intellettuali – era spiegato sotto forma di storie che noi, spiriti moderni e “illuminati”, chiameremmo miti. Se non prendiamo in considerazione il fattore di qualità o l’originalità di questi testi, potremmo benissimo chiamarli dei romanzi seriali. Per spiegare il mondo, questi miti fantastici hanno avuto bisogno di attori, ogni sorta di creature sono state invocate, convocate e immaginate per compiere le azioni che spiegavano i diversi fenomeni cosmici o non spiegati. Così i poeti, come si sono fatti chiamare, questi creatori dell’universo, come Esiodo o Omero per i Greci, Virgilio per i Romani, hanno composto con perspicacia seducenti racconti che hanno dato una coerenza e delle spiegazioni al mondo. Hanno inventato delle cosmogonie, delle teogonie, delle epopee, ogni genere di storia immaginabile per educare e istruire il popolo, inculcargli dei principi per suggerire che c’è un senso nell’universo, un senso al quale gli avvenimenti quotidiani sono direttamente legati. Perché l’edificio esistenziale e cosmico sia coerente, la maggior parte dei minuti da noi vissuti nella scala umana devono far eco a queste grandi esplorazioni “storiche”, poiché dovremmo poter far intrecciare i nostri piccoli miti quotidiani con quelli più vasti dell’universo, in una specie di relazione causale. Di conseguenza l’universo nel suo insieme e in tutti i suoi elementi che lo compongono ha un’importanza, un significato, delle regole e dei principi, tutti sotto forma di “storie”. Ciò garantisce da una parte la prevedibilità per consolarci delle difficoltà della vita, anche se ciò accade raccontando un accesso di collera o la storia d’amore di qualche Dio straniero. Così, le piccole storie riflettevano le grandi storie, ma tutto ciò non erano che delle storie. Fu il caso non solo della Grecia e di Roma, ma anche dell’Egitto, della Cina, dell’India, per menzionare certe culture più celebri e meno effimere, poiché i miti sono realmente fondatori di civiltà. Come possiamo vedere ancora oggi in certi paesi, per esempio in Africa, certe storie riempiono una funzione educativa importantissima, poiché emergono dei modelli, ciò che alcuni chiamano gli archetipi, che ci permettono di percepire gli avvenimenti che ci coinvolgono non soltanto come delle occorrenze particolari, ma anche in quanto manifestazioni o evocazioni di principi più fondamentali, di leitmotifs universali.

L’apparizione del logos, del discorso astratto, ebbe luogo non soltanto in Grecia, in cui questo sconvolgimento segnò profondamente almeno la storia occidentale, ma anche altrove, per esempio in Cina e in India. Questo rovesciamento consiste nel trasformare, almeno parzialmente, una cultura “che racconta una storia” in una cultura di “spiegazione”, ciò che alcuni chiamano “razionalità”, o “astrazione”. Il principio generale del logos è di aggiungere alle “narrazioni” delle ragioni e delle regole, delle procedure e dei metodi, o chiaramente di abbandonare le storie per non conservare che il discorso astratto. Ciò implica che ci si può allontanare dalle situazioni concrete, particolari o universali, per rimpiazzarle con delle idee, che hanno per specificità quella di essere fuori dal tempo e dallo spazio: la causalità sfugge alla cronologia. Questa idee possono essere organizzate e formalizzate fino a creare dei sistemi, impiegate per produrre nuove conoscenze, formulare dei principi generali o utilizzate per esaminare in modo critico dei pensieri e anche dei fatti. La logica è un modo particolare di spingere ai suoi limiti un tale funzionamento intellettuale. La matematica e l’astronomia sono, in numerose culture antiche e tradizionali, le forme più evidenti e più elementari d tali sforzi, così come a volte la medicina e la fisica. E queste nuove “scienze” permettono una conoscenza non più unicamente basata su dati empirici, ma anche su delle astrazioni e delle costruzioni intellettuali. Emergono delle leggi, non solo descrittive, in grado di spiegare ciò che percepiamo, ma anche prescrittive, in grado di indicare come dovremmo agire. La ragione per la quale mettiamo fra virgolette i termini “spiegazione”, “razionalità” e “astrazione” è legata al fatto che la cultura del mito tentava già di farlo, a sua maniera. Per esempio, l’Africa contemporanea è agitata da un dibattito che tenta di determinare se c’è – c’era – o no una filosofia africana, se il ruolo dei novellieri o “griot”, i poeti tradizionali, può essere considerato o meno come filosofia. Gli intellettuali africani “pro-occidentali” affermano che questa attività non è filosofica, principalmente perché non comporta alcun sistema concettuale e apparato critico, perché non esplicita dunque il proprio principio filosofico potenziale. Per essi, la spiegazione, la concettualizzazione e l’analisi critica sono gli elementi costitutivi del filosofare. L’alto campo, quello degli etnologi-filosofi, afferma che queste storie, in quanto storie, pongono delle domande, analizzano e problematizzano, in particolare l’esistenza umana, su dei punti essenziali, sociali e morali, producono senso e in questo senso sono filosofici. Ricordiamo qui come Shelling, filosofo romantico tedesco ha preso in contropiede la «filosofia prima», la metafisica della tradizione aristotelica, con una «filosofia seconda», che è il racconto, la narrazione di una storia, benché quest’ultima filosofia sia in effetti cronologicamente la prima. E’ vero che tutte le grandi società sono fondate su dei grandi miti, che incarnano l’essenza, la natura, la ragione dell’essere, il fine, la specificità di una data società. E’ per questo che la letteratura, sotto forma di teatro, poesia o altro, è un’istituzione cruciale, a fianco alla filosofia, per spiegare chi siamo, cos’è il mondo. Inoltre Schelling non è il solo filosofo che critica la “filosofia dei sistemi”, del principio del “metodo”, dei concetti “trascendentali”, o persino di ogni forma di astrazione, essa sarà anche maturata in certi altri filosofi.

Parallelamente ai grandi miti, con lo stesso principio, numerosi racconti, antichi o recenti, contribuiscono a creare l’identità di quelli che li raccontano e di quelli che li ascoltano. Quali che siano le storie che si perpetuano nelle famiglie, o il mito che ognuno elabora per se stesso. Non abbiamo tutti delle storie a proposito della nostra piccola persona, che abbiamo raccontato a numerose riprese, cambiate o abbellite volta per volta, questa storia che altri ripetono come noi, o modificandola, questa storia che ci circonda ed è a volte faticosa da intendere, ma che continuiamo a raccontare. Perché? Perché lei è ciò che siamo? A meno che non siamo o diveniamo ciò che essa è? Giuriamo che è vera, per quanto sia incredibile, ma in un certo senso, una storia non può essere vera, poiché essa descrive soggettivamente, in maniera specifica, un avvenimento che scappa in sé a qualsivoglia descrizione, verbale o altra. Una storia è il riassunto condensato di una serie di avvenimenti di cui scegliamo i punti salienti e la maniera di descriverli. E’ così che l’uomo è il solo animale che si inventa!

Per chiarificare la nostra idea della filosofia come rottura con la vita, essendo quest’ultima definita come una sequenza di avvenimenti, ricapitoliamo i punti seguenti. Raccontare una storia è più facile e più naturale che spiegare: è più concreto, ciò parla maggiormente ad ognuno. Gli esempi vengono più facilmente allo spirito che le spiegazioni. Le storie sembrano più vere che le spiegazioni, poiché esse consistono nel descrivere dei fatti piuttosto che dare delle interpretazioni “soggettive”. Le storie sono più gratificanti perché non possiamo sentirci bene grazie a delle semplici e piacevoli parole che non necessitano di uno sforzo particolare dello spirito. Le storie danno più spazio all’immaginazione che alla ragione, essendo quest’ultima molto più ristretta. Le storie sono più piacevoli all’orecchio dei pensieri astratti: anche i bambini le apprezzano, poiché hanno una dimensione estetica di cui mancano spesso le spiegazioni delle idee. La filosofia ha un’immagine più arida, non è così facilmente soddisfacente, poiché implica un lavoro di comprensione maggiore di quanto la storia esiga. Tuttavia queste ipotesi di lavoro non sono affatto incontestabili, esse tentano soltanto di fornire alcune generalità a proposito delle percezioni generali, le quali già non sono valide per molti filosofi, la maggior parte di essi infatti si nutrono di ciò che i comuni mortali non apprezzano affatto. In questo senso il filosofo è in un certo modo, agli occhi generali, qualcuno che ha in qualche modo abbandonato la vita. Sembra non essere interessato dalla realtà: preferisce le sue idee oscure. Tutto ciò sembra allora portarci al nostro prossimo punto: la qualità ascetica delle idee.

L’ASCETISMO DEL CONCETTO

Questa aridità del discorso filosofico ci porta direttamente ad un’altra faccia dell’opposizione tra la vita e la filosofia: la dimensione ascetica del concetto. Il concetto è uno strumento cruciale del pensiero, se non il principale, come è generalmente accettato in filosofia, in particolare da Hegel. E questo da quando la filosofia tedesca ha proposto questo “mezzo” come ciò che attesta la “scientificità” della nostra attività mentale. E’ perché egli rigetta il racconto che per lui non è assolutamente filosofico, anche quando lo si incontra in un filosofo “patentato” come Platone, che si “lascia andare” a raccontare delle storie, come percepisce Hegel, mentre per Platone il mito ha sempre un ruolo importante nella fondazione del pensiero. Che cos’è un concetto? E’ una rappresentazione intellettuale, generalmente una parola, che cattura il tema o l’idea saliente di un dato discorso; potremmo anche chiamarla “parola chiave” o “il termine principale”. In modo più moderno può indicare una funzione operatoria piuttosto che un “oggetto”. Può essere incluso nel discorso, o indotto da esso. Può essere considerato come una categoria, un nome comune che rinvia ad una molteplicità di oggetti. “Mela” è un concetto definito che si riferisce in modo astratto ad un’infinità di forme, taglie e colori differenti, ma che hanno tuttavia certi tratti in comune che gli permettono di entrare nella categoria della “mela”: il concetto di insieme rappresenta e definisce gli oggetti che gli corrispondono. E’ il risultato di una doppia operazione. Una astrazione, poiché essa ritiene certe caratteristiche di un oggetto e non altre. Per esempio, una mela non può essere longilinea o quadrata, ma deve essere più o meno rotonda. Lo stesso criterio di “maturità” non rientra nella definizione di mela, sebbene questo ci riguardi quando vogliamo mangiare una mela : una mela non ancora matura è già una mela. Una generalizzazione, poiché le caratteristiche prese in conto si applicano insieme a tutti gli oggetti che appartengono alla categoria. E’ un oggetto mentale con una doppia dimensione: da una parte la comprensione (totalità delle caratteristiche costitutive), dall’altra parte l’estensione (totalità degli oggetti ai quali queste caratteristiche possono essere applicate). Di conseguenza, il concetto è corto – generalmente una parola, a volte due o tre, raramente più – astratto o generale, poiché non si rapporta ad una cosa individuale, concreta e specifica. Per mostrare il processo e i gradi d’astrazione, Kant fa una distinzione interessante fra i concetti empirici, che si riferiscono a degli oggetti che possiamo percepire, e i concetti derivati, che non possono percepirsi, poiché si riferiscono al rapporto fra gli oggetti e li qualificano.

«Buco» o «uomo» sarebbero dei concetti empirici, «uguaglianza» o «differenza» sarebbero dei concetti derivati.

In effetti, non è tanto il concetto che qui ci interessa, ma la dinamica stessa della concettualizzazione, o produzione di concetti. Come Hegel indica nel suo schema realista – quello per cui le idee sono vere -, il concetto non deve essere determinato semplicemente dal suo oggetto, ovvero non deve essere il concetto di qualche cosa, in cui la realtà sembra essere esterna al pensiero, ma dobbiamo piuttosto intenderlo come un concetto che è l’oggetto stesso del pensiero: qualcosa come un concetto in cui la realtà è generata dal pensiero. E’ questa attività di concettualizzazione che pone problema all’uomo, è quando si deve ragionare, è il processo di costruzione, con la sua esigenza di coerenza, più che il concetto stesso che, come oggetto mentale virtuale e passivo non rappresenta alcuna minaccia concreta: dare e impiegare un nome, arbitrariamente, rappresenta un’attività che non implica alcun compimento intellettuale particolare. Cos’è la concettualizzazione? E’ l’attività dell’identificare, produrre, definire o

utilizzare dei concetti integrati nel processo del pensiero globale. Ognuno dei quattro aspetti della concettualizzazione presenta una certa difficoltà e costituisce le ragioni della nostra resistenza alla concettualizzazione. Tuttavia in maniera generale, il problema con la concettualizzazione è che essa agisce per un’azione di riduzione: riduce, restringe e veicola una connotazione secca e dura. Concettualizzando passiamo dal concreto all’astratto, dal molteplice al semplice, dal reale al virtuale, dal percettibile al pensabile, dalle entità iscritte nel tempo, la materia e lo spazio, alle entità acosmiche, immateriali e atemporali: entriamo nel regno delle idee pure, il regno del pensiero di pensiero. E se la maggior parte delle volte l’idea di riduzione veicola una connotazione negativa, dovremmo ricordare al lettore che in filosofia, essa può essere al contrario un’attività positiva e utile, come nel concetto di “riduzione fenomenologica” proposto da Husserl. Si tratta di un processo mentale in cui siamo invitati a mettere fra parentesi il mondo e a sospendere un giudizio fondato sulla soggettività, al fine di cogliere la realtà interna di un fenomeno, il fenomeno in se stesso, oggettivamente, come appare. Certo, non dobbiamo abbandonare ogni realtà che ci circonda, al fine di contemplare gli oggetti della nostra percezione mentale svincolati dal loro contesto. Questo fenomeno può prodursi naturalmente, per esempio quando siamo stupiti poiché vediamo solo l’oggetto del nostro stupore, ma il processo della riduzione fenomenologica ci domanda in generale di ricreare artificialmente una tale ricorrenza, poco corrente, un compito molto artificiale ed esigente, che ci permette di cogliere l’essenza interna di un oggetto del pensiero abbandonando, nella misura del possibile, il nostro punto di vista pre-stabilito del mondo, che declina soggettivamente il nostro pensiero, invischiando l’oggetto pensato nella sua propria matrice. Il processo di riduzione può così prodursi osservando le variazioni apparenti di un dato oggetto, al fine di abbandonare le caratteristiche contingenti e di conservare solo il necessario, l’essenza di una cosa, così rivelata.

Identificare un concetto, nel nostro discorso o in quello altrui, è difficile perché richiede un processo, perché dobbiamo scegliere, fra tutte le parole pronunciate, quelle che sono al centro del modello del pensiero espresso dal dato discorso. E’ un processo difficile perché dobbiamo eliminare numerose parole, in verità la maggior parte di essere, per ritenerne soltanto una, o qualcuna. Perdiamo la prospettiva narrativa o la spiegazione globale, puntando il dito con una semplice parola.

La produzione di un concetto è difficile perché dobbiamo utilizzare un termine che oltrepassa una realtà data e che perciò è al di qua di questa realtà. Dobbiamo designare con un unico termine l’entità che unifica una pluralità in una determinazione semplice. Dobbiamo dividere una totalità di oggetti indeterminati attraverso un processo di denominazione che implica il creare delle categorie determinate. O ancora dobbiamo qualificare l’insieme di una realtà globale con una parola specifica, che si può nominare

“qualificazione”, atto che, per Platone, tocca all’essenza delle cose. Tuttavia qui ci sembra spesso che la nostra lingua ci sfugga, che questa realtà sia al di là della nostra capacità di pensare. Inoltre la definizione di un concetto è difficile perché dobbiamo determinare la realtà che questo termine ricopre. Forniremo più naturalmente degli esempi, poiché il concreto o il particolare viene più facilmente in mente rispetto all’astratto e al generale. Definire significa toccare all’essenza di una realtà, determinare e descrivere la sua natura, la sua essenza, prendendo in conto la contingenza. Si tratta di uno degli esercizi mentali più esigenti. Un’altra maniera semplice e comune di definire è di produrre dei sinonimi; anche se ciò può risultare utile, il problema resta: questo gesto mentale non indica come determinare la natura della realtà in questione, non fornisce che degli indizi. Un altro problema è che alcuni concetti di natura fortemente trascendentali sono in generale impiegati per determinare o qualificare altri concetti: sembrano riferirsi soltanto ad essi stessi, in quanto entità evidenti in sé. E’ il caso per esempio di “buono”, “bello”, “vero”, etc. Di conseguenza, sembrano scappare ad ogni definizione, e ogni tentativo di produrne una apparirà sempre come riduttore, parziale e incerto.

Utilizzare un concetto è probabilmente l’aspetto più facile della concettualizzazione, poiché essa può effettuarsi in modo più intuitivo e meno formale. Tuttavia determinare se un concetto è stato impiegato in modo appropriato fa parte di questo uso – cosa che costituisce ciò che è più difficile, persino arcigno e ingrato, poiché dobbiamo valutare il nostro proprio pensiero. Per una tale analisi, dobbiamo avere in testa un’idea piuttosto chiara e cosciente del significato di un concetto. Tuttavia, l’intuizione risulta abbastanza debole; del resto la lingua ci è insegnata in modo piuttosto “naturale” o iterativo, come una pratica quotidiana ripetitiva, più che come un processo cosciente e analizzato. La reticenza comune degli allievi nello studio della grammatica e un certo abbandono dell’insegnamento “proprio”, nella pedagogia moderna, apporta un chiarimento alla nostra proposta, riguardante la natura “artificiale” di questa attività formale. Benché dal nostro punto di vista “artificiale” non sia affatto contraddittorio con necessario.

Occorre sintetizzare ciò che è ascetico e sgradevole nella concettualizzazione – e dunque contrario alla vita – ecco ciò che si esige. Dover scegliere e abbandonare, quando vogliamo tutto. Convocare dei termini specifici aventi una funzione specifica, poiché tale rigore ci sembra formale, complicato, puntiglioso, mentre noi preferiamo ciò che è facile. Trattare delle astrazioni che non hanno alcuna realtà empirica immediata, poiché esse ci appaiono inutili e vane. Analizzare il nostro pensiero e divenirne coscienti, perché è ascetico e spaventoso. Si potrebbe obiettare alla nostra idea che la concettualizzazione è l’arresto della vita replicando che ciò che stiamo descrivendo è semplicemente un lavoro intellettuale. Rispondiamo a questa obiezione in due punti. Innanzitutto tratteremo l’aspetto del lavoro, poi l’aspetto intellettuale.

2 – Pensare l’impensabile

IL LAVORO

Fra le culture e i pensieri, esistono diverse visioni del lavoro. Non vogliamo produrre un vasto studio sul tema, ma solo fornire alcuni esempi sul modo in cui funziona l’opposizione fra la “vita” e il “lavoro”. Per cominciare potremmo menzionare il fatto che la parola “lavoro”, in certe lingue come il francese o lo spagnolo (trabajo), viene dalla parola latina tripalium, che designava a Roma uno strumento di tortura, o un oggetto per immobilizzare gli animali, mentre gli animali sono definiti proprio dalla loro mobilità. Contrariamente alla vita che è libertà di movimento, il lavoro è legato all’obbligo, e dunque al dolore. Negotium è un’altra parola latina che si riferisce al lavoro: significa l’assenza di riposo, di tempo libero, l’assenza di ciò che in francese si dice “il tempo di vivere”; il negotium (da cui viene la parola “negozio”) è la negazione dell’ozietà, quel privilegio dell’elite, quel lusso di una società che ha i mezzi del superfluo. Per questa ragione Aristotele raccomanda di non concedere la cittadinanza all’ozioso. Su questa stessa linea, Rousseau critica l’agitazione e il tormento riguardanti il lavoro, Pascal pretende che utilizziamo questa attività per non pensare a noi stessi, Nietzsche considera che il lavoro è una polizia mentale utilizzata per controllare la coscienza al fine di ostacolare lo sviluppo della ragione, del desiderio e dell’indipendenza. Il concetto di alienazione è un’altra accusa all’idea di lavoro, secondo Marx e altri. Il concetto di “lavoro” ha anche i suoi sostenitori. Arendt pensa che il lavoro fornisca piacere e buona salute, Comte afferma che produrrà la coesione sociale, Voltaire scrive che ci protegge contro tre gioghi terribili: la noia, il vizio e il bisogno. Noteremo che la difesa del lavoro non riposa semplicemente sulla sua utilità pratica, ma ugualmente sul fatto che contribuisce allo sviluppo esistenziale. Menzioniamo qui questi autori “opposti” alla nostra tesi per provare che, in nessun modo, prendiamo le nostre idee come degli assoluti del pensiero: esse costituiscono semplicemente un’ipotesi di lavoro.

Si potrebbe così criticare il fatto che intendiamo la parola “lavoro” come funzione sociale, come mezzo per guadagnare la propria vita, come attività, etc. Per esempio non distinguiamo l’attività piacevole e libera del pensatore dall’attività fisica e dolorosa del lavoratore manuale.

Tuttavia noi non vogliamo opporre un lavoro intellettuale “nobile” a un lavoro fisico “volgare”, troviamo interessante non opporre queste due concezioni, poiché esse si invertono facilmente, soprattutto oggi, anche se questa opposizione può essere molto vera in diverse circostanze. Infatti un intellettuale può scrivere un libro per ragioni economiche e per mantenere il proprio statuto – ad esempio il famoso “publish or perish” degli universitari americani – come una sorta di necessità, mentre il muratore può costruire una casa per il solo piacere di costruire qualcosa. Allo stesso modo, non entriamo nel dibattito sulla natura dell’uomo in quanto “homo faber”, che tenta naturalmente di compiere qualcosa nella vita, contro una concezione di pigrizia dell’uomo, questo “peccatore” che cade nell’ignominia della pigrizia, questo essere che cerca più che può di scappare alla sua parte di lavoro per la buona ragione che il lavoro è la modalità per evitare la punizione alla quale siamo condannati a causa del peccato originale. Vogliamo solo fornire alcune indicazioni per illustrare la nostra visione della resistenza esistenziale al lavoro, per giustificare e dare senso alla tesi dell’incompatibilità fra la vita e il lavoro, ricordando che il lavoro è spesso compiuto sotto l’obbligo della necessità – “guadagnare la propria vita” –, cosa che richiede sforzo e che spesso, se non molto spesso, gli uomini eviterebbero se si domandasse loro di scegliere liberamente e senza alcun obbligo lo svolgimento del loro quotidiano. Ciò potrebbe spiegare perché la filosofia, pratica che implica un lavoro abbastanza conseguente, nell’appropriazione di una cultura, nell’acquisizione di competenze in sé e rispetto a se stessi, senza alcun tipo di necessità immediate o di ricompense facili – non è il mezzo più evidente per guadagnare la propria vita o divenire ricchi – non ha mai riempito gli stadi di calcio. Chiaramente se la filosofia fosse una semplice discussione riguardo alla vita e alla felicità, il genere di scambio che avremmo naturalmente prendendo una bevanda o al caffè dell’angolo, sarebbe tutt’altra cosa. E’ d’altronde la direzione che prendono alcuni filosofi con il fine di rendere la filosofia più popolare, producendo un pensiero pronto. Tuttavia se la filosofia è un lavoro, una lotta con se stessi e gli altri, al fine di produrre dei concetti o esistere, tenderà ad essere rigettata dalla maggioranza come un ostacolo alla “buona vita”.

Il lavoro si oppone spesso alla vita, poiché è un obbligo, mentre la vita è prima di tutto un desiderio. Friedrich Schiller, insieme filosofo, poeta e drammaturgo, non apprezzava il dualismo kantiano fra ciò che chiamava “istinto sessuale” o desiderio e “istinto formale” o obbligo, un’opposizione che ha voluto risolvere attraverso una terza entità: “l’istinto al gioco”. Egli afferma che quando un filosofo respingerà il suo auditore a causa dell’aridità del suo discorso, potrà condurlo a lui attraverso questo “istinto di gioco”: l’uomo ama giocare, con le idee per esempio. Tuttavia ciò implica che le emozioni siano educate dalla ragione, che apprendiamo a scappare al “bisogno” immediato, ma i nostri desideri resistono a un tale sforzo; è tuttavia possibile, altrimenti, come i bambini potrebbero svilupparsi e crescere? Per l’umanista tedesco nell’ “anima bella”, il dovere e l’inclinazione non entrano più in conflitto l’uno con l’altro. L’espressione di se stessi non deve essere legata a sentimenti banali e primitivi, ma può essere legata alle emozioni più evolute, in particolare all’amore della bellezza o della verità. La libertà umana si esprime allora come capacità di andare al di là degli istinti animali. Tuttavia, certamente, ciò implica un certo lavoro, poiché un tale compimento non scaturisce naturalmente. Se questa emozione può divenire naturale, è per una natura acquisita, una specificità dell’uomo che si chiama anche cultura, una cultura che in questo senso è sempre un lavoro, come vediamo nell’origine stessa del termine “cultura”, nel suo senso primogenito.

LA RAGIONE

Esaminiamo il problema «intellettuale» della filosofia. Per iniziare, possiamo ricordare al lettore la storia celebre di Talete e la serva, raccontata da Platone. Talete, filosofo e astronomo, guardava le stelle, e non vedendo dove metteva i suoi piedi, cadde in un pozzo. Una serva che osservava la scena si mise a ridere fragorosamente: come un tale energumeno, così occupato delle “sfere eteree” può ignorare la realtà così prossima a lui? La questione che si impone allo spirito filosofico, cosa che secondo l’aneddoto non concerne la serva, è di sapere se il pozzo, il buco nella terra, la presenza fisica immediata, è dotata di maggiore realtà che i cieli lontani che Talete si impegnava a contemplare. Questa storia cattura bene la visione generale del filosofo, la prospettiva dell’attività filosofica, sebbene essa si articoli intorno ad una sorta di cliché. Tuttavia, dopo tutto, un cliché è una parola che, in origine, designa la fotografia presa da un apparecchio che mostra in modo fisso che è che visibile immediatamente; malgrado la sua azione riduttrice, c’è realtà in un cliché. Così il filosofo, affermando che c’è una realtà altra che immediata ed evidente, si concentra su questa realtà nascosta, è obnubilato da essa, è ossessionata dal suo segreto e non vede più ciò che è visibile al’ “altro” o al “non filosofo”. Ciò ci riporta a Platone e all’Allegoria della caverna in cui l’eroe, dopo essere stato accecato dalla “luce della verità”, dopo essersi abituato e averla vista, è di nuovo accecato quando torna nella caverna oscura, e non può più partecipare ai giochi comuni, che per lui non hanno più senso. Il suo comportamento strano provocherà innanzitutto il riso dei suoi concittadini, poi una rabbia che li condurrà ad ucciderlo.

Un altro punto di divergenza appare fra la vita e la filosofia, mentre pensiamo a Talete e alla serva : la questione del corpo. Infatti sembra che la domestica abiti il suo corpo, contrariamente al filosofo. Potremmo pensare a lui – e a numerosi altri filosofi – come ad un puro spirito salito al di sopra delle zampe, poiché il suo corpo è unicamente il mezzo per trasportare la sua testa, come sui disegni per i bambini, questi uomini senza corpo che le maestre chiamano dei testardi. La serva è un essere di carne e Talete è quasi un ectoplasma. Contrariamente ad essa, non si inquieta di ciò che accade al suo corpo, è per questo che cade. L’immediatezza dei sensi non ha alcun significato reale, poiché in Talete l’attività di questi ultimi è totalmente distesa, il suo sguardo è rivolto al cielo, occupato a contemplare le stelle, tanto che la visione non si distingue più realmente dall’attività mentale, mentre la serva sembra essere dotata di ciò che si chiama “grossolano buon senso”, “senso comune”, questa razionalità molto empirica, così strettamente legata alla percezione sensoriale. Essa si fida dei propri occhi e del proprio spirito – della sua visione immediata – perché essi indichino, mentre il filosofo dubita, seziona e tenta sempre di andare al di là. Lei è vivente, esiste, lui non è che uno spirito. Egli incarna la classica tesi intellettualista: il corpo è una prigione per l’anima, un’anima che tenta continuamente di raggiungere l’illimitato, l’incondizionato, ma che il corpo umilia costantemente, ricordandogli la propria finitudine. Così l’anima disdegna questo ridicolo pezzo di carne chiamato corpo. La vita è sporca e impura. E’ la ragione per la quale Lucifero non può comprende perché Dio non preferisce gli angeli magnifici, creature della luce, a questi umani fangosi e maldestri. Lucifero in quanto “santo patrone” dei filosofi… Anche quando il filosofo si preoccupa del corpo, quest’ultimo non è mai che un concetto. D’altronde, l’altro corpo spesso ignorato o disdegnato dal filosofo è il corpo sociale. Anche quando il corpo fisico e personale, il corpo sociale è obbligo, pesantezza, banalità, volgarità, sporcizia, brutalità, immediatezza, etc. Ciò che è comune è cattivo, l’opinione per esempio, è buono ciò che è “speciale”. Ciò che è lontano è bello, il brutto caratterizza la prossimità. Ciò che è materiale è determinato, ciò che proviene dal pensiero è libertà. Una volta ancora, un tale schema “intellettualizzante” non può pretendere in alcun modo di stabilire un prisma assoluto, ma ciò funziona bene come approssimazione generale, e questa visione è utile per comprendere il nostro funzionamento. Si tratta semplicemente di uno di quei dualismi classici che reggono l’esistenza dell’uomo. Tale dualismo permette per esempio d comprendere quella tendenza intellettualizzante del tutto banale e comune, che ci incita a non credere a nessun’altro che a noi stessi, quella diffidenza fondamentale nei riguardi delle opinioni altrui, quel sospetto che abita a diversi grandi gli spiriti appena si vantano di pensare in maniera originale. Soprattutto, poi, l’altra maniera in cui l’intelletto nega la vita è nel suo rapporto con i sentimenti. Prendiamone uno, comune, che spesso è pretesto per non filosofare: l’empatia. E’ una delle ragioni invocate regolarmente per impedirci di interrogare gli altri quando li invitiamo a pensare. L’empatia, come la compassione, l’amore, la pietà e altri, è uno di quei sentimenti sociali che ci rendono umani, viventi. Tuttavia l’intelletto, come ogni funzionamento mentale, favorendo la propria attività, tende a ignorare, diminuire, negare, frustrare o sopprimere gli altri tipi di attività, in particolare se non sono della stessa natura. In effetti, analizzare e concettualizzare esige che l’altro faccia altrettanto, richiede che l’altro ricerchi ed esponga la verità, che egli si interroghi; costituisce un’ingiunzione turbante e dolorosa, contraria ai sentimenti sociali il cui il principio è di facilitare la vita a se stessi e al nostro prossimo, al fine di non suscitare delle situazioni tese, inquietanti e conflittuali. Su questo punto, i partigiani della “totalità dell’essere”, tesi che incarna un’altra forma di onnipotenza ancorata nella tendenza “new age”, o nelle persone adepte ad un certo psicologismo, affermeranno che l’intelletto e i sentimenti sono del tutto complementari e si combinano benissimo. Tuttavia a partire dalla nostra esperienza possiamo concludere che si tratta unicamente di una strategia di protezione di sé, di una certa “misologia”, una paura di pensare, un timore dell’incontro intellettuale. Ci sembra che questi “umanisti” che pretendono di proteggere altrui dall’asprezza del pensiero tendono a proiettare le loro proprie paure e prevenzioni sulle persone – adulti o bambini – con le quali hanno a che fare, esprimendo soprattutto una mancanza di fiducia verso la loro propria identità intellettuale. Essi manifestano una apprensione per il “tragico” e dunque una diffidenza verso l’identità intellettuale di ognuno, fenomeno del tutto comune, molto umano. I sentimenti sembrano di nuovo costituire un principio fondamentale della vita, una maniera comune di comportarsi e la filosofia prende l’aspetto di un’attività forzata e artificiale, dotata di una connotazione esigente, dura e brutale. Si dimentica che la filosofia, come ogni arte marziale, non può impedire di inciampare, di cadere o di ferire. E’ probabilmente così che essa ci insegna a svilupparci, incitandoci ad impegnarci in un corpo a corpo con la realtà.

Queste specificità dell’intelletto possono essere raggruppate in un concetto esistenziale che ci è caro: l’autenticità. Ora, malgrado la sua connotazione esistenziale, l’autenticità è una forma di morte. Essere autentico significa radicalizzare la nostra posizione, osare articolarla, compierla senza guardare costantemente al di sopra della nostra spalla, andare fino in fondo senza trasalire, senza fremere di fronte al deborda mento e all’eccesso: l’autenticità non ha bisogno di giustificarsi. Questa apparente assenza di dubbio offre agli altri una buona ragione per qualificarla superbia e arroganza. Questa singolarizzazione estrema è una delle ragioni principali che spiegano l’ostracismo che si manifesta contro i filosofi, fenomeno di cui questi ultimi abusano facilmente per glorificare la loro posizione e il loro essere. I cinici sono un esempio interessante del caso rappresentato da questa figura: essi osano esprimere ciò che pensano, osano pensare ciò che pensano, senza alcuna considerazione per i costumi, i principi, le morali e le opinioni prestabilite. Essi mostrano irriverenza per tutto ciò che è considerato come sacro da quanti li circondano e dai loro concittadini – cosa che li conduce naturalmente al confronto o all’isolamento. Essi appaiono come rigidi e dogmatici, mentre teoricamente, per sopravvivere, occorre essere piuttosto flessibili e adattarsi alle circostanze, agli avvenimenti e all’ambiente. Si può dunque accusarli di avere un comportamento patologico, suicida, almeno sul piano simbolico. Ora, se i filosofi sono accusati di interrompere i loro interlocutori, non si deve ignorare che essi agiscono allo stesso modo nei confronti di se stessi. Innanzitutto a causa dello stato di guerra perpetua nel quale essi di fatto sono impegnati, benché questa “guerra” non sia la loro vera finalità: questa situazione conflittuale proviene semplicemente dalla loro incapacità a spezzare i giochi sociali e a giocare con i giochi sociali. Inoltre la loro propria persona è messa in secondo piano in favore di qualcosa di più importante, un concetto trascendentale, una verità per la quale sono disposti a sacrificare tutto, compresa la loro persona. Una delle ragioni per le quali questi personaggi restano incompresi e strani è che spesso non pronunciano il concetto stesso che li anima, poiché, per il cinico, le parole sono già al di qua di ogni verità: esse non sono che menzogne e illusioni. Essi appaiono dunque come al di là della legge, degli infedeli, dei personaggi incongrui e intransigenti che non accettano né le mezze misure né i compromessi, offrendo così lo spettacolo di una radicalità assurda, sospetta, persino sgradevole. In effetto, quando osserviamo l’entità degli abituali temi di conversazioni nel quotidiano ci rendiamo conto che la maggior parte degli scambi si compone di tre ingredienti principali: le chiacchiere a proposito del tempo, un discorso di autoglorificazione e autogiustificazione e diverse strategie per ottenere qualcosa da qualcuno. L’autenticità del filosofo è in rottura totale con questo sistema convenzionale: la piccola conversazione è noiosa, teoricamente non ha nessun bisogno di glorificarsi o giustificarsi e, a priori, il dialogo non dovrebbe trattare che di preoccupazioni fondamentali. Altrimenti è meglio fare silenzio e far tacere l’interlocutore, posizione violenta.

L’Allegoria della caverna ben cattura due atteggiamenti frequenti e distinti che l’uomo popolare della strada adotta verso la filosofia: il riso e la collera. Il riso perché egli agisce in modo strano, come nel caso della serva di Talete, e la collera, la quale è provocata dal dubbio – o la certezza – che egli sa qualcosa che gli altri non sanno. Si potrebbe così parlare di invidia, di gelosia. Questa descrizione rinvia al filosofo definito come un’altra persona, ma che ne è del filosofo all’interno di se stessi? Quale rapporto intratteniamo con lui? Esaminiamo come questo filosofo interiore, questo demone, come lo chiama Socrate, ci impedisce di vivere. Possiamo rispondere a questa questione indirettamente, argomentando che in generale, durante un processo educativo, i genitori non incoraggiano nessun tipo di preoccupazione simile a quelle che nomineremmo filosofiche: si nutrono poco, o persino per niente, della dimensione filosofica. C’è una ragione semplice a motivare tale prevenzione: un bambino dotato di un certo tipo di comportamento sarà percepito come afflitto da una sorta di handicap: sarebbe maldestro, distratto, senza spirito pratico, fastidioso, noioso, etc. In altri termini, non sembrerebbe prepararsi alla lotta che è la vita, visione comune dell’esistenza, anche quando ciò non si confessa apertamente. Si deve adattare, deve essere pratico, devo ululare con i lupi, poiché viviamo in una cultura di risultati. Soprattutto oggi, in un’epoca in cui la concorrenza economica è estrema, in cui si intraprendono gli studi innanzitutto perché quest’attività ci procurerà un mestiere degno di questo nome, ovvero redditizio, occuparsi delle preoccupazioni filosofiche non sembra fornire la preparazione più adeguata alla vita. Sembra essere un semplice lusso, o una minaccia. Su questo punto osserveremo frequentemente, nel nostro lavoro con i bambini, nelle diverse obiezioni nei confronti della pratica filosofica, che apprendere a pensare richiede tempo e che ci sono temi più urgenti da trattare. Per restare sulla stessa linea, possiamo aggiungere una seconda obiezione anch’essa importante: il timore che il bambino sia destabilizzato o turbato da questo genere di esercizio. La sua vita di bambino sarebbe disabitata dalla pratica del pensiero, cosa che potrebbe provocargli solo angoscia, dubbio e scuotere il suo essere. Alcuni adulti considerano che la vita è già abbastanza dura, senza dover, inoltre, pensare a cose terribili: “Lasciate allora il bambino essere un bambino”, gridano… E così grida anche l’adulto, senza dubbio, alla minima occasione… Per tanto, oltre alle difficoltà reali legate all’atto del pensare, come abbiamo già esaminato, si ha il sospetto che la produzione di certi tipi di pensiero sarebbe minacciante o distruttrice. Cosa che è probabilmente vera. Una pista che ci conduce verso la prossima contraddizione fra la vita e la filosofia: il tema della problematizzazione.

PENSARE L’IMPENSABILE

Una delle competenze importanti della filosofia è la capacità di problematizzare. Attraverso domande e obiezioni si esaminano in modo critico idee e temi dati, al fine di sfuggire alla trappola dell’evidenza. Questa “evidenza” è costituita da un insieme di conoscenze e di credenze che i filosofi chiamano «opinioni»: idee che non sono ragionate, ma stabilite semplicemente per abitudine, sentito dire o tradizione. Così, impegnandosi nel processo filosofico, si devono esaminare i limiti e la falsità di tutte le opinioni date e considerare altri cammini di pensiero, cosa che, a prima vista o al di là del pensiero comune, sembra bizzarra, assurda o pericolosa. Si deve sospendere ogni giudizio, come Cartesio ci invita a fare, e a non affidarsi ad emozioni e convinzioni abituali. Addirittura, nel suo “Metodo”, egli ci domanda di subire un certo processo mentale che garantisce l’ottenimento di una sorta di conoscenza più debole, che chiama anche “evidenza”, in opposizione ad un’opinione “stabilita”, volgare o sapiente. Al fine di essere debole, questa “evidenza” deve poter sopportare il dubbio, occorre perciò evitare la precipitazione e il pregiudizio, e il pensiero deve prendere delle forme chiare e distinte. Con il metodo dialettico, che sia in Platone, Hegel o altri, il lavoro della critica o della negatività va lontano, poiché è necessario poter pensare il contrario di una proposizione al fine di comprenderla e valutarla: per pensare un’idea è necessario andare al di là di questa idea, e ogni possibilità di “evidenza” tende naturalmente a sparire. Tuttavia per mettere all’opera tali procedure cognitive, dobbiamo essere in un certo stato mentale, adottare un’attitudine specifica, composta dal distanziamento e dalla prospettiva critica. Questo processo è molto esigente e incontra numerosi ostacoli. La sincerità è uno degli ostacoli ricorrenti in questo atteggiamento, così come la buona coscienza e la soggettività che devono abbandonare la loro presa tenace sullo spirito. Più radicalmente, i principi morali, i postulati cognitivi e i bisogni psicologici che ci guidano nella vita devono essere messi fra parentesi, essere sottomessi ad un’aspra critica e anche essere rigettati, cosa che non si produce naturalmente poiché genera dolore e angoscia, lavoro che esige una grande capacità di distanziarsi da se stessi. Sdoppiarsi – così come suggerisce Hegel – come condizione al vero pensare, come condizione della coscienza. Per compiere tale cambiamento di atteggiamento si deve infatti “morire a sé”, “lasciare la presa”, si deve abbandonare, almeno momentaneamente, ciò che v’è di più caro, sul piano delle idee e sul piano delle emozioni più profonde. “Biologicamente non posso farlo!” mi rispose una volta un professore spagnolo, quando gli domandai di problematizzare la sua posizione su un certo tema. Visibilmente, aveva piuttosto ben percepito il problema, senza tuttavia prendere veramente coscienza delle conseguenze intellettuali della sua resistenza o del suo rifiuto. La nostra vita, il nostro essere, sembrano fondati su certi principi stabiliti che consideriamo innegoziabili. Allora, se il pensiero implica di problematizzarli, se il lavoro di negatività rappresenta una condizione indispensabile ad una riflessione degna di questo nome, si tratta allora di morire al fine di pensare. Osservando il modo in cui le persone implicate in una discussione si riscaldano quando le si contraddice, come esse fanno ricorso a delle posizioni e a delle strategie estreme al fine di difendere le loro idee,

compresa la più fragrante cattiva fede, si può concludere in effetti che abbandonare le proprie idee rappresenta una sorta di “piccola morte”.

Ci si può domandare perché rifiutiamo in maniera rigida di abbandonare la “nostra” idea solo per un istante, perché resistiamo così tanto ad un esercizio di problematizzazione, per quanto corto esso sia, come accade regolarmente quando formuliamo una tale domanda. E’ certamente il caso degli adulti, sembra porre meno problemi ai bambini, poiché questi ultimi sono nettamente meno coscienti delle implicazioni e delle conseguenze relative al contemplare una qualunque proposizione contraria, anche attraverso un artificio come quello del semplice esercizio. Su tale tema un prezioso indizio ci è fornito da Heidegger che dichiara che il linguaggio è la casa dell’essere. Per costui parlare è far apparire qualcosa nel proprio essere, potremmo estrapolare da ciò che la parola genera l’esistenza. Per l’uomo, essere di linguaggio per eccellenza, questa constatazione è piuttosto evidente, benché questa prospettiva sia spesso rigettata, come mostra per esempio l’obiezione comune: “Queste sono solo parole”. Senza storie, senza miti, senza racconti, senza dialoghi, cosa saremmo? Certamente non degli esseri umani! Tutto ciò che enunciamo a proposito di noi stessi, che sia sotto forma di racconto – mito – o sotto forma di idea o di spiegazione – logos – ci è indispensabile e prezioso. Per mostrare l’importanza della parola dobbiamo solo osservare quanto ci sentiamo minacciati quando il nostro discorso è ignorato o contraddetto; pretendiamo di colpo essere preoccupati per la verità! In realtà la nostra vera preoccupazione è rivolta alla nostra immagine, a quella persona che abbiamo laboriosamente e accuratamente costruita, una individualità desiderosa di padroneggiare la propria definizione, un essere singolare animato da grandi ambizioni, poiché esso pretende senza confessarlo di detenere la conoscenza, l’esperienza, la ragione, in breve, di essere un individuo di valore…

La nostra immagine è un idolo al quale siamo disposti a sacrificare tutto; nessun dono è tanto grande quanto essa. Così, quando la filosofia o uno specifico filosofo ci invita ad esaminare il fittizio, l’assurdo o la vanità dei nostri propri pensieri, il nostro intero essere reagisce violentemente, istintivamente, senza voler neppure pensarvi, come per pura reazione di sopravvivenza. Il conatus spinoziano, il nostro desiderio di perseverare nell’esistenza, oltrepassa la nostra sete di verità; il nostro desiderio di essere specifico – l’esistenza – è pronto a negare ogni forma d’alterità che gli sembra rappresentare una qualunque minaccia, compresa la ragione stessa. La persona, questo individuo costruito empiricamente, si sente minacciata, nella sua stessa esistenza, dall’essere trascendente, senza volto e identità. E’ l’opposizione che fa Carl Jung fra la “persona”, essere che appare, piuttosto funzionale, e “l’anima”, l’individuo nel senso profondo del termine, trascendentale, capace di distanziamento e di critica di fronte all’essere empirico. Problematizzare i nostri pensieri più intimi, i nostri principi fondamentali, abbandonare temporaneamente o esaminare liberamente i postulati che abbiamo spesso enunciati, che difendiamo aspramente, a volte per numerosi anni, diviene una posizione intollerabile. Le nostre idee sono noi stessi, noi siamo le nostre idee. Un tale modo di vivere non dovrebbe essere percepito come una forma di ostinazione patologica? Ciononostante, ammettiamo, come potremmo situarci nella società e agire in essa se non provassimo un tale attaccamento? Come potremmo investirci in un progetto di vita, se non ci sottomettessimo a dei principi fondamentali? Come esisteremmo, senza alcuni ideali normativi che guidano la nostra vita, sebbene siamo lontani dal realizzarli? Se l’uomo è un essere di pensiero, è un essere di idee, dunque di rigidità e pregiudizi. Sebbene le idee siano degli strumenti per il pensiero, troppo spesso il mezzo è preso per il fine e così l’idea diviene un ostacolo al pensiero. Problematizzare significa tentare di ristabilire la priorità del pensiero sulle idee, un compito che non è facile da compiere, poiché l’individuo empirico prova delle difficoltà a cedere all’essere trascendente. Abbandonare delle idee specifiche, le nostre idee specifiche, è una forma di morte: pensare è dunque simile a morire.

COSA FARE?

In certe culture il filosofo beneficia di un vero statuto : è ammirato per la sua conoscenza, saggezza, profondità, perché sembra aver accesso ad una realtà rifiutata ai comuni mortali. In altri ambienti culturali, al contrario, è percepito come un essere inutile, sospetto, maldestro o anche perverso. Per ritornare a Talete e alla serve, alcune società accordano un posto più preponderante alla prospettiva celeste, altre accordano il loro credito ad una visione più terra terra. Il secondo caso si manifesta sotto diverse forme. Prima possibilità: la filosofia resta relativamente assente dalla matrice culturale, essa di riduce allo stretto minimo in termini d’importanza nella psiche collettiva. Seconda possibilità: la filosofia è percepita come un nemico, poiché essa mina i postulati e i principi che guidano questa società, introducendo il dubbio e il pensiero critico. Terza possibilità: la filosofia si adatta alla matrice culturale, si ancora alla preoccupazione materiale, al fine di inibire lo slancio del pensiero nella sua evasione verso una realtà più eterea. Questi tre aspetti possono essere facilmente combinati, la cultura anglo-americana è infatti un buon esempio di questo ancoraggio. Che sia negli Stati Uniti o in Inghilterra, la filosofia rappresenta una componente culturale piuttosto debole. Essa è spesso considerata come una minaccia nei riguardi dei postulati politici, economici e religiosi stabiliti. La tradizione filosofica specifica di questi paesi tende a rinchiudersi nella realtà empirica e materiale, come abbiamo osservato storicamente nelle correnti come l’empirismo, l’utilitarismo e il pragmatismo. Questo terzo aspetto, la forma specifica del filosofare, non è accidentale: si tratta di un problema assiologico. Quali sono i valori di una data società? Qual è la gerarchia dei valori attorno ai quali questa società è organizzata? Ricordiamoci del celebre dipinto di Raffaello: la scuola di Atene, che mostra Platone che tende il dito verso il cielo e Aristotele che mostra la terra, mentre diversi filosofi sembrano interessati da altri diversi problemi. La storia della filosofia non è nient’altro che una serie di affermazioni e di rifiuti, accompagnati da considerazioni epistemologiche sui metodi e le procedure impiegate per stabilire tali diverse posizioni. Di conseguenza la critica della filosofia o il suo rigetto opera ancora nel quadro della filosofia, poiché si tratta sempre di una critica o di un rifiuto che prende anche una forma specifica e particolare della filosofia, critica o rigetto che prende anche una forma filosofica particolare. La filosofia produce la sua propria critica e opera sulla sua propria critica. E’ questa la ragione per la quale la filosofia può reclamarsi come la forma stessa dell’antifilosofia; che questa antifilosofia sia di natura religiosa, scientifica, psicologica, politica, tradizionale, letteraria, o altra, essa resta filosofica. Noi siamo già obbligati a postulare che l’uomo non può affatto scappare alla filosofia, così come non può scappare alla fede o all’arte. I soli parametri che cambiano sono i valori adottati, i metodi impiegati, gli atteggiamenti tenuti e il grado di coscienza. L’umano crea la sua propria realtà, e questa produzione di realtà ha un contenuto filosofico. Le realizzazioni dell’uomo possono cambiare significato, il suo desiderio di determinare la realtà può modificarsi, il suo rapporto alla realtà può variare, l’importanza data al “significato” può opporsi all’importanza data alle osservazioni “fattuali”, ma qualunque cosa noi facciamo, non possiamo scappare alla ragione, una ragione che è produttrice di senso, espressione di senso. Ciò significa che naturalmente l’uomo interpreta, giudica, valuta, decide soggettivamente quale grado di realtà e quale natura si accorda alla realtà, egli fissa la norma per ciò che è la verità. Possiamo anche dichiarare che la realtà e la verità non sono nient’altro che dei concetti, delle semplici costruzioni umane o delle invenzioni. Anche quando l’uomo decreta che la realtà gli scappa totalmente perché è materialmente determinata, oggettivamente definita, o data da Dio, egli è dentro un insieme definito di valori. In altri termini, la serva è un interlocutore valido – in un certo senso lei è ugualmente filosofa – quanto Talete, poiché essa somiglia molto alla nostra vicina di casa – cosa che ci riconduce di nuovo al tema della filosofia “volgare” e della filosofia “elitaria”. La filosofia è un tentativo di “scarto”, il tentativo di fare un passo al di là, ma queste trasformazioni spaziali sono prive di senso senza “l’al di qua”, poiché quel “laggiù” non è niente senza il “qui e ora”. Il personaggio di Talete prende tutto il suo senso nel suo rapporto con la serva, egli ha bisogno di lei: molto stranamente lei è il suo “alter ego”: lei è un altro “me”! Senza dialogo e tensione fra le sue posizioni, Talete perde il suo interesse, la donna diviene senza interesse. Ritorniamo a questa tensione dell’Allegoria della caverna. Perché in questo mito di Platone il filosofo ritorna all’interno dopo essere riuscito ad evadere? Ritorna per morire! Non può restare fuori, a contemplare la pura luce, benché in un primo momento abbia gridato di preferire essere schiavo di un povero lavoratore in questo mondo luminoso piuttosto che di tornare nelle tenebre. Tuttavia Platone non può impedire il ritorno, non può proporre di ricondurre quest’uomo nella caverna, come se la fatalità l’obbligasse a questo “dialogo” forzato, a questo confronto, a questa morte. Non v’è filosofia senza “agone”, afferma Nietzsche. L’agone è infatti nella tragedia greca il momento del confronto, del dramma, della tensione. Questo istante è, in modo ambiguo e paradossale, decostruttivo e costruttivo. Il pensiero è dialogo con se stessi, scrive Platone, e non può esservi dialogo se non v’è distanza e opposizione: senza scarto, senza intervallo, non v’è confronto.

La nostra tesi è che affermando che ci sono cose più importanti o più urgenti da fare che la filosofia, noi siamo già nella discussione filosofica; anche dimenticando che la filosofia esiste, siamo già nel campo filosofico. Il ruolo del filosofo, come quello dell’artista, è di far notare, mostrare, puntare il dito. Foucault scrive che se lo scienziato rende visibile l’invisibile, il filosofo rende visibile il visibile. Una volta che qualcuno ha visto, può accettare di aver visto, può non aver visto, può dimenticare di aver visto, ma qualunque cosa dica o faccia, i suoi occhi non sono più gli stessi, il mondo non è più lo stesso: non può più pretendere di “ritornare” a una qualunque verginità. La filosofia dà fuoco a tutto il bosco. Nel dialogo, il filosofo “guadagna” sempre, unicamente perché si impegna nel dialogo con altri. Non guadagna alla maniera dell’uomo che usa la retorica: non confondiamo la filosofia con l’eristica, poiché in quest’ultima si tratta di condurre ad un dibattito, di persuadere e anche di convincere. Nel dialogo il filosofo “guadagna” in due modi: ottenendo che l’altro veda qualcosa e vedendo egli stesso ciò che l’altro vede. E’ per questo che il dialogo è così cruciale per la filosofia. E’ per questo che Socrate ha così risolutamente e implacabilmente perseguitato i suoi simili per le vie di Atene e non ha contemplato un interesse più importante per la vita che quello di esaminare lo spirito dei suoi simili sfogliando la loro anima. E’ in questo luogo unico, l’anima dell’altro, che si trova la verità. Com’è possibile? Era circondato esclusivamente da profeti e saggi? Chiaramente no, se leggiamo i dialoghi in cui Socrate in generale sembrava molto più intelligente dei suoi interlocutori. La nostra proposta è che Socrate ha trovato la verità in queste persone perché esse gli hanno dato la possibilità di abbandonare il proprio pensiero, penetrando il loro, gli hanno permesso di morire a se stesso. Avventurandosi in queste anime straniere e strane, ha potuto confrontarsi con se stesso, in una sorta di ascesi: come il combattente o il soldato che ha bisogno di un avversario per sfidare se stesso, per superarsi, per divenire se stesso, per morire a sé.

Se esaminiamo la storia della filosofia, abbiamo un’altra lettura di questa faccenda. In origine, la filosofia ricopriva la conoscenza di tutto ciò che ci concerne, trattava tutti i campi del sapere “astratto”: le scienze della natura, la religione, la matematica, la saggezza, l’etica e anche la tecnica. Vi si trovava una connotazione importante di onnipotenza, in termini di teoria e sapere pratico. Pensiamo ad Ippia, il sofista che annuncia a Socrate che tutto ciò che portava su di lui lo aveva fabbricato egli stesso; a Callicle, che spiega come attraverso la sua arte retorica il forte potrà sempre soppiantare il debole; Gorgia, che pretende di poter convincere chiunque e riguardo a qualunque cosa. Cosa abbastanza naturale poiché non ci sono limiti alle pretese intellettuali: la hybris regna, la dismisura caratterizza colui che parla. La verità non ha sempre avuto un vero statuto, come la ragione, né un altro principio regolatore e limitativo; solo la legge della giungla – o del bisogno – vi trova considerazione. La realtà unica del discorso è il soggetto e il suo desiderio. Chiaramente, l’erudito criticherà tali parole, argomentando che la filosofia è nata dal rigetto di tali concezioni, che essa è la ricerca del vero e del bene, ci accuserà di confondere deliberatamente il filosofo e il sofista. Risponderemo in primo luogo che la sofistica è una scuola specifica della filosofia, combattuta da Socrate, e che l’atteggiamento dei sofisti messo in scena da Platone somiglia molto ai nostri intellettuali moderni, sofisticati. Per esempio, gli atteggiamenti relativisti e privi di morale – o immoralisti – proclamati da questa corrente di pensiero ne fanno i precursori di numerose vie contemporanee del pensiero. La pretensione all’onnipotenza dei sofisti, che più tardi prende altre forme, è restata in una caratteristica tipica del filosofo, caratterizzato da un ego sovradimensionato, cosa che a suo tempo Socrate tentava di affrontare con il dialogo, per mezzo della ragione. Denunciando i sofisti poiché non erano dei filosofi, dal nostro punto di vista, Platone aveva ragione sulla sostanza, ma si sbagliava sul piano formale. Egli lo sapeva senza dubbio, poiché ha riconosciuto la prossimità di queste due “specie”, come indica la sua famosa analogia del dialogo sui sofisti, in cui egli dichiara che il filosofo si può comparare al sofista come il cane al lupo, o il lupo al cane. Notiamo che appena un campo particolare ha voluto esprimere il suo sapere in modo più certo, ha abbandonato la filosofia e si è stabilito come ciò che ora si chiama scienza, un sapere costituito, dotato di una evidenza oggettiva “irrifiutabile”, fondato su delle idee e dei numeri, e che utilizza possibilmente l’osservazione e la sperimentazione. La filosofia potrà unicamente reclamare ciò che Kant chiama mondo “problematico”: ciò che rivela l’ordine del possibile e non del necessario. Tuttavia i filosofi, come i loro predecessori sofisti, non vogliono abbandonare le loro certezze. Queste famose certezze che restano loro e che non si lasciano esprimere, sono di tre tipi: quelle che rivelano la visione del mondo, con il loro contenuto politico, sociale, spirituale o altro, quelle riguardanti la conoscenza storica a proposito delle idee, delle scuole e degli autori, e quelle che concernono il modo di pensare, ovvero il metodo e l’epistemologia. Anche il postmodernismo, con il suo rigetto di ogni universalità o di ogni trascendenza, è arrivato a creare un “nuovo” tipo di certezza: la figura onnipotente della soggettività, di nuovo molto vicina a quella del sofista.

Attraverso tutto ciò, tentiamo di giustificare come e perché il principio di «agone» è consustanziale all’attività filosofica, come si vede nel concetto derivato dell’ «agonia», questa morte a se stessi, lenta e senza fine. Anche se molti “momenti” della storia filosofica hanno preteso di fornire una risposta definitiva all’eterno dibattito sull’uomo e il mondo, o sul metodo, sorge sempre una “nuova” obiezione, pronta “ a uccidere” questa tesi “definitiva”. Hegel ha forgiato il concetto di “momento” per rendere conto del processo di pensiero così contraddittorio che ci abita, nella cronologia storica e personale, tentando di mostrarci come ogni “momento”, seguendo e rifiutando il momento precedente, è una tappa indispensabile per accedere ad un certo “assoluto”, ideale regolatore che egli aveva potuto chiaramente discernere. Ci si può d’altronde stupire della sua determinazione di assoluto, proveniente proprio da chi aveva criticato Schelling accusandolo di “invitarsi troppo presto alla tavola del divino”, ma questo tentativo fa senza dubbio parte integrante del cammino, l’estensione del pensiero all’infinito ne è un elemento motore. E’ lo stesso per la critica lanciata da Marx a Hegel e ai suoi discepoli contro questa dialettica iper idealista: essa è una reazione semplicemente legittima e necessaria. L’altra reazione opposta ad una visione così assolutista fu quella del pragmatismo americano. E se queste due scuole di pensiero hanno considerevolmente influenzato il futuro dell’umanista, intellettualmente, culturalmente, politicamente, etc., quest’ultimo è ancora oggi dominante. Tuttavia se ci auguriamo di serbare un criterio comune ai due avatars opposti alla filosofia “tradizionale”, sceglieremo il sostegno della ragione “comune”, una ragione che appartiene ad un processo immanente e non ad una potenza trascendente. Ancora una volta, il filosofo doveva morre: non può arrogarsi una potenza “caduta dal cielo” o proveniente dal “Santo Spirito”, deve rispondere ad una certa capacità che appartiene ad ognuno, come Cartesio ha annunciato scrivendo che “la ragione è la cosa al mondo meglio condivisa”. Questo antielitismo è probabilmente, quando ci si confronta con esso, una delle esperienze più umilianti e disumane per il filosofo. E, per la stessa ragione, probabilmente, una delle esperienze filosofiche più importanti. Disapprendere, come ha detto Socrate. Filosofare con un martello, secondo Nietzsche. O potremmo anche dire: “Il trionfo della serva”.

ESSERE PERSONA

Ulisse è un vero eroe per Socrate, senza dubbio il suo preferito, tesi che difende nel dialogo di Platone Ippia Minore. La ragione principale della sua apologia è che il nome di Ulisse è “Nessuno”, “Io sono Nessuno”, come dice egli stesso al ciclope Polifemo. Personaggio complesso e polimorfo, come vediamo nell’Odissea, è sempre insieme da qualche parte e da nessuna parte, fa affari con gli uomini e con gli dei, che combattono al di sopra di lui, è ingegnoso ma ha a che fare con forze potenti, è insieme un capo e un uomo solo, desidera sempre ardentemente essere ciò che non è, è fugace, la sua vita è chiaramente sul filo del rasoio. Sembra essere la versione mediterranea della visione taoista dell’esistenza, che possiamo riassumere nel modo seguente: colui che si preoccupa soprattutto della sua vita e si trova troppo attaccato ad essa, non soltanto non vive perche questa preoccupazione mina la sua gioia di vivere, ma anche perché questa preoccupazione inibirà e corromperà la sua vitalità, la vera fonte della vita. Questa idea che la vita – corteo senza fine di piccole preoccupazioni, tensioni e rigidità riguardo a “piccole cose” – è un ostacolo alla vitalità, offre l’equivalente esistenziale all’affermazione secondo la quale le idee sono un ostacolo al pensiero. La vitalità non si incatena alla vita; il pensiero non si attacca alle idee. Troviamo un’altra eco di questo principio nella figura di Cristo: il figlio dell’uomo, figlio di nessuno e di ognuno, nato per morire, non avendo neppure une pietra per posare la sua testa, come annuncia all’uomo che si augura di seguirlo.

Così l’essenza della filosofia è dinamica, tragica e paradossale. Che sia nella tonalità occidentale appassionata o nella versione orientale distaccata, la sfida rilevata dall’uomo attraverso al sua vita e la filosofia, deve essere di sapere lasciare la presa senza tuttavia abbandonare. Tuttavia la vita così come la conosciamo nutre una certa avversione a lasciare la presa, promuove una postura contratta per la quale la sola alternativa è di abbandonare tutto. Così la vita si riassume spesso in una serie di cicli maniaco depressivi cronici, che finiscono fortunatamente o sfortunatamente con la morte, lo stato maniaco o depressivo ultimo, secondo gli umori e le circostanze.

L’esperienza filosofica fondamentale è un’esperienza di alterità, l’esperienza di un “al di là”, che può essere vissuto soltanto dal punto di vista di un “al di qua”. Il fossato, l’abisso, la frattura dell’essere, la tensione fra finito e infinito, fra realtà e desiderio, fra affermazione e negazione, fra volontà e accettazione, sono tante forme di questa stessa esperienza. Anche il bello, questa percezione dell’unità radicale o dell’armonia, si iscrive nel dolore del sublime. Si potrebbe riassumere il filosofare attraverso l’eterna interazione fra la singolarità, la totalità e la trascendenza. E si potrebbe descriverlo come ciò che conduce l’uomo a pensare e a esplorare piuttosto che a mostrare come tenta di oscurare o negare ciò che cerca. Molto stranamente, la storia della filosofia si compone di una giustapposizione di visioni e di sistemi in cui i filosofi di un dato momento tentano di compiere, spiegare o rigettare le tesi dei loro predecessori. Tutti i testi della tradizione filosofica europea sono delle semplici annotazioni al testo di Platone, dopo il filosofo inglese Whitehead. E se analizziamo l’opera di Platone, essa cattura già il paradosso della filosofia. Il fine iniziale del lavoro di tale filosofo è di testimoniare la storia di un uomo che ha interrogato più che enunciato, un uomo che non avrebbe mai scritto una riga. Ora Platone afferma senza vergogna, fonda una teoria e una metodologia sul lavoro di quest’uomo, o ispirato da esso, e ha scritto molto. Viene immediatamente dopo un altro discepolo di questa tradizione: Aristotele, che, a nostro avviso, creerà l’ossatura della futura filosofia occidentale, una sorta di enciclopedia ragionata della conoscenza, includente l’insieme del sapere: scienza naturale, scienza politica, psicologia, etica, etc. Qualcosa di solido e di debole, raddoppiamento del tradimento… Tuttavia come Socrate,

pensiamo che la filosofia non si legga o non si scriva, poiché una tale attività si realizza con dei semplici oggetti – dei libri – mentre la filosofia ha per fine principale quello di approdare all’anima umana, di trattare l’anima e non di trattare dell’anima. Allora perché scrivete dei libri, se siete contro i libri, ci ha giudiziosamente obiettato qualcuno in passato? Cosa rispondere? Tuttavia come potete disimparare ciò che non avete appreso? Come potete bruciare i libri, se non li avete scritti? Come potete morire a voi stessi se non avete vissuto? E con l’inversione dialettica così comune alla filosofia, domandiamoci in seguito: come potete apprendere se non avete disimparato? Come potete scrivere dei libri se non li avete bruciati? Come potete vivere se non siete morti?

Il solo problema con i filosofi, come con tutti gli esseri umani, è che essi confondono o invertono i mezzi e i fini. La ragione è semplicissima: il mezzo è più vicino a noi rispetto ai fini. Essere un professore, avere conoscenza, scrivere libri, avere un titolo, avere delle idee, essere famosi o importanti, essere brillanti, essere rispettati, riconosciuti, sono tante conseguenze possibili del filosofare, tante motivazioni del filosofare, ma anche tanti ostacoli al filosofare. E’ probabilmente ciò che motiva Socrate a citare Euripide nella sua discussione con Gorgia il sofista quando dice: chi sa se vivere non è morre e se d’altro canto morire non è vivere?

Che filosofare è morire al mondo è un’idea piuttosto comune. Che filosofare è morire a se stessi è già più raro e strano. Tuttavia, se, inoltre, dichiariamo che la filosofia implica la morte della filosofia, cadremo nell’assurdo, in cui poche persone vorranno accompagnarci. Tuttavia pensiamo che è là che si trovi la filosofia, là dove essa muore. E’ probabilmente la migliore definizione che potremo dare alla filosofia come pratica, benché questo non voglia dire granché.

Alcuni filosofi criticano il concetto di pratica filosofica e hanno ragione quando affermano che la filosofia ad ogni modo non è nient’altro che una pratica. Sebbene molte e contraddittorie possano essere le forme di questa pratica, la verità di questa critica è che i filosofi accademici rigettano la pratica filosofica perché essa sfida l’individuo e interroga la persona, con ben poco rispetto per essa.

Tuttavia lasciamo questo allo stadio di conclusione momentanea, proponendo l’idea che l’essenza della pratica filosofia è di invitarci a pensare ciò che non è pensato, di pensare ciò che si rifiuta al pensiero, qualunque cosa pensiamo. Ideale regolatore invivibile, e dunque filosofico.

(Trad.it. di Roberta De Francesco)