Speculazioni

IMG_1373Calcolano molto per procurarsi la felicità. A volte ci riescono e sono soddisfatti. Ahimè, tutte queste speculazioni li rendono infelici.

Eroi

IMG_1423Così gli eroi sopravvissero al diluvio. Avevano un cuore puro o sapevano nuotare bene?

Sacro

IMG_1323Sono quel che sono. Ma non posate lo sguardo su di me. Come tutto ciò che è sacro, sono fragile.

Linguaggio

IMG_0772Non parliamo la stessa lingua. Questa è senza dubbio la ragione migliore per parlarsi. O per evitarsi.

Effimero

IMG_0808Le cose funzionano fino al momento in cui non funzionano più. Approfittatene.

Relazioni

IMG_0629Le relazioni finiscono sempre male. O con la rottura, o con la morte.

Anima

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Non hanno anima. Ne vanno fieri. La loro malattia prende il posto dell’identità e dello status.

Essere qualcuno

Macbeth, signore di Glamis, vinse eroicamente la battaglia contro un esercito di ribelli, appoggiando fedelmente il potere di Re Duncan. Ma l’animo degli uomini è sempre infestato da orribili fantasmi, in questo caso rappresentati da tre streghe che predicono al nostro eroe che diventerà signore di Cawdor e re di Scozia. Sulle prime, Macbeth è sorpreso e dubbioso, ma poco dopo, quando apprende di aver appena acquisito il primo titolo, è sbalordito. Non serve altro: egli decide di diventare re e procede all’omicidio di Duncan, nonostante l’orrore che tale idea gli provoca. I suoi ultimi dubbi sono tuttavia superati dalla moglie, Lady Macbeth, che affronta i dilemmi del marito sfidandone la virilità, il suo stesso valore. Lei disprezza quel dilemma morale che indica mancanza di coraggio. Convoca i poteri del male per aiutarla a compiere ciò che “deve” essere fatto. Quale astuta erede di Eva, tesse la sua trama dicendo a suo marito di fingersi un ospite fidato quando il povero Duncan, ignaro, verrà al castello.

Macbeth, temendo la propria inanità, deve mettersi alla prova, deve lasciare il suo segno sul mondo. Per essere qualcuno, per essere onorato, per avere potere a ogni costo. Deve far entrare e comprimere in se stesso tutto ciò che sta al di là del suo misero sé. Verità, bene o bellezza sono necessità interiori che finge di ignorare, nella sua folle ricerca personale. L’intera tragedia drammatizza gli effetti fisici e psicologici dannosi dell’ambizione su coloro che cercano il potere fine a se stesso. Man mano che la trama si sviluppa, Macbeth è costretto a commettere sempre più omicidi. Per proteggersi dall’inimicizia e dal sospetto, diventa un sovrano tirannico. Avvolto dalla colpa, inghiottito da una scia di violenza, soffre di una forma sempre più acuta di paranoia delirante. Ad esempio, dopo aver ucciso il suo vecchio amico Banquo, vede il suo fantasma irrompere durante un banchetto. Egli innesca una diatriba insensata, sconcertando l’assemblea con la sua crescente follia. Inevitabilmente, un bagno di sangue e la conseguente guerra civile gettano rapidamente Macbeth e sua moglie nel regno della pazzia e della morte. Si può quindi concludere, come fa Shakespeare, che la vita è un racconto narrato da un idiota, pieno di rumore e furore, che non significa nulla.

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Filosofare è riconciliarsi con la sua propria parola

Filosofare è riconciliarsi con la sua propria parola

judo fightUno dei compiti principali della pratica filosofica consiste nell’invitare il soggetto a riconciliarsi con il proprio discorso. A qualcuno questa affermazione sembrerà strana, ma la maggior parte delle persone che parlano non amano ciò che dicono o, addirittura, non lo sopportano. “Come!”, ribatteranno gli obiettori, “La maggior parte delle persone parlano e parlano anche tanto!”. Constatazione inconfutabile. L’unica cosa da fare per rendersene conto è quella di collocarsi in un luogo pubblico e ascoltare il vocio delle conversazioni. Infatti, è vero che la maggior parte delle persone parlano e diremmo anche che si sentono obbligate a parlare. Una specie di compulsione è all’opera, perché le persone vogliono parlare, vogliono esprimersi e, allo stesso tempo, perché non sopportano il silenzio. Il silenzio è sospetto, pesa, ha un’apparenza triste; c’è bisogno o di una grande fiducia verso qualcuno, per accettare il silenzio in sua compagnia, o di una buona ragione, senza la quale il silenzio indicherebbe un certo disinteresse, una rottura del dialogo e perfino un conflitto. Così le persone parlano, in genere parlano di qualsiasi cosa: del tempo, degli avvenimenti, dei rischi inerenti alle loro piccole vite, si scambiano degli ossequi, dei luoghi comuni e, quando la discussione progredisce, ci si può anche fare delle confidenze intime, rivelarsi dei piccoli segreti, o condividere un dolore più personale, addirittura inconfessabile. Ciò nonostante, un primo sospetto riguardo il nostro piacere di “parlare” s’impone al nostro spirito non appena la discussione si entusiasma a causa di un disaccordo. Gli spiriti s’impennano, si riscaldano, si ostinano, si innervosiscono, diventano violenti o prendono una piega acrimoniosa. Se poi non siamo neanche abituati a questo tipo di svolta verso la violenza, potremmo stupircene: “Guarda! Finalmente trovano un’idea che conta, qualche argomento che sembra interessarli, per di più, visto che non condividono lo stesso parere, potrebbero discuterne, ma allora, perché sembrano vivere questo disaccordo come un dispiacere, o come un momento doloroso ?” Bisogna evitare le discussioni che fanno arrabbiare, proclama la saggezza popolare, ciò che grossomodo può significare tutti gli argomenti rilevanti, quelli che abbiamo a cuore, affinché ci si attenga allo scambio formale, certamente meno appassionante, ma anche meno rischioso.

AVERE RAGIONE

Qual è il problema qui ? Ognuno pretende di aver ragione. Sicuramente, non riflettiamo mai abbastanza né sul senso che può avere l’idea di “aver ragione”, né perché quest’idea ci stia così a cuore. Spiegheremo quindi progressivamente che è una questione di confronto con il proprio simile, di lotta, di potere, o altro ancora, e che è l’immagine di sé che costituisce la posta in gioco di questa lotta, spiegazione che senza alcun dubbio contiene la sua parte di verità. Ma quello che qui ci interessa, è un altro aspetto di tale questione, aspetto che certamente ha qualche legame con le intuizioni precedenti: l’ipotesi secondo cui l’essere umano, in fondo, apprezza poco la propria parola, ciò che inoltre spiegherebbe tanto le difficoltà inerenti alla discussione, quanto la facilità con cui questa può scivolare verso pieghe sgradevoli. In effetti, se una persona amasse la propria parola, tanto o poco che sia, se avesse fiducia nelle proprie parole, allora, perché il fatto di esser riconosciuta dal proprio vicino dovrebbe inquietarla a tal punto? Vorrebbe ottenere, non importa quel che sia, dal suo interlocutore in una maniera così insistente? Qui, non considereremo le discussioni che hanno una finalità ben definita, come quelle che per convinzione o per preoccupazione pratica hanno bisogno di convincere l’altro, dato che in tal caso la discussione non è più libera: non ha più la propria finalità in se stessa, desidera esplicitamente un oggetto senza il quale la discussione non avrebbe ragion d’essere e che ne rappresenta la finalità precisa ed affermata. Anche se pensiamo che, indirettamente, cerchiamo sempre qualche cosa, dal momento che, in generale, desideriamo ottenere una qualsiasi forma d’approvazione dalla persona alla quale parliamo. Ma la questione essenziale è quella di sapere il perché. Secondo la nostra prospettiva, qui percepiamo il meccanismo della “regina madre”, la matrigna di Biancaneve. “Specchio, specchio, dimmi chi è la più bella!”. Se la regina madre apprezzasse sufficientemente la propria bellezza, che bisogno avrebbe di domandare allo specchio se lei è la più bella, quale bisogno avrebbe di paragonarsi, perché dovrebbe preoccuparsi di questa povera Biancaneve? Evidentemente, esiste un rapporto sicuro tra il fatto di trovare bello e il fatto di amare, che sia l’altro o se stessi, e come ci ha già mostrato Platone nel Simposio, è difficile sapere se viene prima il bello o, invece, l’amore. Amiamo perché è bello, o troviamo bello perché amiamo? E per ritornare alla parola, quella che qui è messa in questione, cosa ne deriva? Trovo la mia parola brutta perché non mi amo? O invece, non mi amo perché trovo la mia parola brutta? Su questo punto, lasceremo sentenziare ognuno a suo modo, o altrimenti gli specialisti ne faranno un loro dibattito. Quanto a noi, in quanto filosofi praticanti, in fondo più preoccupati del pensiero in sé che della soggettività umana, a dispetto dei legami che li uniscono, ci domanderemo, così come abbiamo fatto all’inizio di questo testo, come potremmo riconciliare il soggetto con la propria parola. Non perché preoccupati di renderlo felice, o seguendo un progetto eudemonista, ma unicamente perché se il soggetto non si riconcilia con la propria parola, allora non potrà pensare.

 PROTEGGERE LA PAROLA

Prima di spiegare quest’ultima frase, precisiamo che, secondo noi, il fatto di riconciliarsi con la propria parola non implica il fatto di trovarla meravigliosa, anzi, al contrario. L’estasi di fronte alla propria parola è troppo spesso l’espressione narcisista di una soggettività esacerbata, di un malessere, di un’assenza di distanza, di un’incapacità inerente allo sguardo critico. Un po’ come un genitore che vorrebbe vedere il proprio bambino eccezionale al fine di vivere, per procura, una felicità che altrimenti non saprebbe trovare in se stesso. Riconciliarsi con la propria parola significa accettare di vederla così com’è, di prenderla per ciò che è, di non attribuirle delle virtù che spesso non manifesta e, anche, di non provare a proteggerla dallo sguardo altrui, mediante la “timidezza”o con un’argomentazione eccessiva piena di “ciò che volevo dire” e di “voi non mi capite”. Riconciliarsi con le proprie parole è accettare di ascoltarle così come suonano alle orecchie altrui, è fare il lutto di un senso che è visibilmente assente dalla formulazione così com’è stata forgiata, significa desiderare di vedere le aperture, le rotture e i tradimenti delle parole che sono state pronunciate, accettarne la brutalità. Anche se fosse per il solo fatto che, rispetto a tutte le parole che ancora abbiamo voglia di esprimere, quelle che abbiamo già pronunciato ci dicono di più riguardo ciò che pensiamo e ciò che siamo. D’altronde, proteggere la propria parola è una delle prime motivazioni di ciò che nominiamo correntemente timidezza, affrettatamente e per semplicità. In effetti, un gran numero di questi “timidi” sono di fatto delle persone che possiedono un’elevata opinione di ciò che hanno da dire, ma che temono soprattutto che gli “altri”, coloro che li ascoltano, non condividano la loro stessa ammirazione nei riguardi del loro discorso. Per questo, considerano più sicuro e meno pericoloso astenersi dal parlare per poter così conservare, al semplice beneficio del dubbio, questa apparenza di genio, dal momento che possiamo attribuire qualsiasi virtù ad una sfinge, almeno fino a quando non abbia parlato. Ma ancora, se temono l’analisi critica delle loro parole, è perché loro stessi ignorano o fuggono questa pratica verso se stessi. Come i grandi ispirati, queste persone pensano di essere nel vero senza pronunciare neanche una sola parola e, senza esserne davvero coscienti, sono più attaccati ad un preteso “fondo” illusorio del loro pensiero che alle loro stesse parole. Così, cercheranno di evitare la critica del loro discorso riferendosi a quello che volevano dire, o abbandonando, o negando, in modo rapido, le loro stesse parole, al fine di chiudersi nel loro foro interiore o, in alternativa, lanciandosi in un discorso senza fine. Ma non accetteranno mai di prendere le loro parole come la sostanza stessa del loro pensiero: ciò significherebbe esporsi troppo.

PRENDERE IL RISCHIO DÌ PENSARE

Approfittiamo un istante dell’antinomia che abbiamo identificato nei nostri timidi. Opponendo il “fondo” del pensiero a delle idee già espresse, di fatto, non facciamo altro che opporre l’infinito al finito, perché opponiamo l’onnipotenza del virtuale alla finitudine del concreto, il potenziale indeterminato alla determinazione di ciò che è già attualizzato. Il virtuale può ogni cosa, tutto è possibile, tutto può ancora essere detto, mentre il concreto è qui, presente, investito nell’alterità del reale, radicato nel tempo e nello spazio. La parola che è detta è detta, lei è perché è specifica, implica una parola formata, un modo di essere, una particolare prospettiva. Anche se, per il solo fatto di pretendere che la parola non sia conclusa, possiamo sempre interpretarla, reinterpretarla, sovra-interpretarla, possiamo farle dire tutto ciò che vogliamo, ciò nonostante, questa parola ostenta già qualcosa di particolare e, almeno di non ricorrere alla più totale mala fede – ciò che è lontano dall’essere raro o escluso -, non potremmo più farle dire qualsiasi cosa o trasformarla nel contrario di ciò che già esprime. D’altronde, è questa stessa esclusione che disturba: il fatto che questa frase affermando, non importa quello che afferma, introduce necessariamente una negazione, come ci insegna Spinoza. Tutto ciò che afferma, dal fatto stesso dell’affermazione, nega. Nega sia per commissione: rifiuta il contrario di ciò che afferma. O altrimenti, nega per omissione, dimenticando di dire alcune cose, relegandole ad un secondo piano. Ma più di un locutore si divincolerà quel tanto che può per rifiutare questa dimensione negativa della parola, in particolare la seconda, più facile da occultare, rifugiandosi nella “totalità” del suo pensiero, in ciò che potrebbe ancora dire.

In questo senso, accettare la propria parola, o le proprie parole, come l’espressione del proprio pensiero o, meglio ancora, come la sostanza stessa del pensiero (Hegel), o come i limiti del pensiero (Wittgenstein), è l’equivalente psicologico, o filosofico, dell’accettare ciò che abbiamo fatto, ciò che abbiamo compiuto, come la realtà di ciò che siamo (Sartre). In effetti, possiamo sempre rifugiarci in “ciò che potremmo essere”, “ciò che avremmo potuto essere”, “ciò che vorremmo essere”, “ciò che ci ha impedito di essere”, “ciò che siamo stati”, “ciò che saremo”, e queste diverse dimensioni virtuali dell’essere o dell’esistenza, anche se hanno sicuramente un senso e una realtà, possono comunque rappresentare facilmente una sorta di alibi, di rifugio, di fortezza, per non vedere e assumere ciò che siamo. Il passato, il futuro, il condizionale, il possibile, o anche l’impossibile, costituiscono tanti meandri per occultare il presente e l’attuale. E se il nostro intento non è assolutamente quello di dissimulare o neanche di sottostimare queste diverse dimensioni, che a loro modo compongono la ricchezza dell’essere e della sua libertà di concepire, vorremo comunque mostrare la trappola che queste rappresentano e mettere in guardia contro l’utilizzo abusivo di questa molteplicità. Poiché, se per spiegare ciò che ci ha spinto alla soddisfazione dei desideri e alla ricerca del piacere abusiamo del presente, a discapito del passato, del futuro o del condizionale, per ciò che concerne la realtà delle nostre parole l’occultiamo molto facilmente e disinvoltamente.

MALTRATTARE LA PAROLA

Arriviamo a ciò che potrebbe quindi minacciare la parola timorosa. I Sofisti individuano in modo molto giudizioso due critiche essenziali contro Socrate, riguardo il suo modo di discutere, o piuttosto di interrogare. Prima di tutto, “Tu mi forzi a dire ciò che non voglio dire”. Poiché Socrate, dall’orecchio agguerrito, ascolta ciò che una frase qualsiasi dice e ciò che nega, ed esige dal suo interlocutore un interruzione, un arresto sull’immagine, affinché renda conto di questa frase, affinché si renda conto della propria frase. D’altronde, rendere conto per lui diventa praticamente la definizione stessa del pensare, o del filosofare, poiché ragionare indica proprio il dar le ragioni di qualche cosa. Socrate invita, quindi, il proprio interlocutore a ritrovare la genesi, per non dire l’archeologia, del suo proposito, al fine di coglierne il senso e la realtà. Non una genesi singolare, quella dell’intenzione del locutore, ma la genesi del senso, l’universalità del termine. Ora questa realtà, visibile attraverso le parole, è molto spesso dimenticata, o negata dall’autore delle parole, per il semplice fatto che non è pronto ad accettarne la realtà al di là dell’intenzione specifica che lo spingeva a pronunciarle. Intenzione che – ahimè per lui! – non è che una parte infima e limitata della realtà offerta attraverso queste parole: l’intenzione è riduttrice. E stranamente, l’uditore attento, estraneo all’intenzione delle parole, percepirà meglio questa realtà “oggettiva” della parola, poiché non sarà animato e accecato dal desiderio personale che l’ha motivata. Ma il locutore, ben inteso, spesso rifiuterà l’interpretazione dell’uditore, che spesso considererà come intempestiva ed intrusiva, se non addirittura illegittima ed alienante. Si considererà l’unico detentore del senso delle proprie parole, pretenderà confiscare ogni interpretazione a favore della sua sacrosanta intenzione. Come se la nostra parola fosse riducibile al semplice senso che noi pretendiamo accordargli, spesso in modo tergiversato ed assurdo. Questo sradicamento da sé, questa lacerazione dell’essere tra un sé e la parola, ritenuta esserne la proiezione, è il crogiolo stesso della pratica socratica: sondare l’abisso dell’essere, lavorare l’anfrattuosità che costituisce la nostra singolarità frantumata. Come non ribellarsi contro un intervento così abusivo, contro una proposta così tendenziosa? Prospettiva insopportabile nello psicologismo diffuso.

La seconda critica, assolutamente conforme alla prima, è “Tu vivisezioni il mio discorso in piccoli frammenti”. Sentimento sgradevole che suscita questa dissezione con i bisturi di un insieme, preteso armonioso, nel quale abbiamo messo molto sforzo e amore, piccolo pezzo di essere individuale, briciola amabile della nostra persona, composto con grazia, assemblaggio che presentiamo al mondo come un campione scelto di noi stessi. E se la nostra messinscena verbale ci lascia insoddisfatti, se non la consideriamo all’altezza del nostro pensiero, o non totalmente adeguata ad esso, allora siamo ancor più sensibili all’analisi che qualcun altro potrà farne, siamo più nervosi rispetto alla sorte che potrebbe infliggergli. Ed è una buona ragione per protendere ad essere insoddisfatti del nostro discorso: il fatto è che nel nostro discorso cerchiamo sempre di “dire tutto”, “includere tutto”, in ogni caso lo pretendiamo. O si tratta di dire la verità più compiuta di ciò che pensiamo, o di dirne la totalità, l’integralità, attraverso l’enumerazione infinità e generalmente confusa delle cause e delle circostanze. Cerchiamo di coprire tutti gli angoli, di prevedere le obiezioni e di prevenire i giudizi critici, agghindando la nostra parola con ogni paravento possibile, al fine di renderla imparabile. Ora, cosa fa Socrate: prende un piccolo pezzo della nostra opera d’arte, che sceglie nel modo più arbitrario, o incongruo, al fine di esaminarlo e di triturarlo in ogni senso, ignorando totalmente ciò che abbiamo potuto affermare in un altro momento, non fosse che all’istante precedente. Lui ignora l’estensione o la bellezza del nostro discorso e pretende interrogarci su un aspetto specifico di ciò che abbiamo abbordato, come se non avessimo detto niente altro, esigendo di rispondere con una parola corta e precisa, se non addirittura con un semplice “si e no”, riducendo tutta l’ampiezza del nostro pensiero ad un semplice giudizio: quello di un assentimento o di un rifiuto ad un’idea specifica. Idea specifica che sicuramente s’incastra in una sorta di tranello infernale che conduce alla critica precedente: l’interlocutore ci obbliga ad affermare ciò che non abbiamo detto e che non desideriamo dire. Decontestualizza la parola e in seguito domanda di prendere una posizione riguardo la radicalità del suo senso.

 INQUIETUDINE DELLA PAROLA

Potremmo credere che è il fatto di subire un abuso interpretativo che infastidisce il locutore, preoccupato che non si faccia dire alle sue parole ciò che lui non desidera dire, o altra cosa rispetto a ciò che desidera dire, ma ci sembra che la questione sia più profonda o più “grave” di ciò. In effetti, per destabilizzare il suo interlocutore, e tutti potranno farne esperienza, basta a volte domandargli di ripetere ciò che ha appena detto, assumendo un’aria interessata. “Puoi ripetere ciò che hai appena detto”, e vedremo il nostro uomo prendere un’aria sorpresa e cominciare subito a difendersi, senza che l’abbiamo il minimo criticato. Molto spesso non ripeterà ciò che ha detto, in primo luogo perché lui stesso non ha realmente fatto attenzione alle sue parole, ciò che in sé è già significativo. O perché sentendosi minacciato vorrà giustificarsi piuttosto che ripetere le parole già pronunciate, o altrimenti, trasformerà le sue parole iniziali, cominciando la sua frase con “Ciò che volevo dire”. Una sorta d’inquietudine o anche di panico lo invade, senza che tuttavia, e oggettivamente, nulla indichi una critica qualsiasi. Anche se qui possiamo evocare a mo’ di spiegazione, o di circostanza attenuante, una sorta di traumatismo sociale. Gli esseri umani fanno così poca attenzione alla parola dell’altro, o l’ignorano perché, semplicemente, sentono che ciò non li riguarda, o la contestano perché le loro idee sono differenti da quelle dell’altro, o peggio ancora, le rifiutano semplicemente perché sono gli altri che pronunciano le parole incriminate. Senza dubbio, è così che funziona questa dinamica sociale, vettore del traumatismo precedentemente citato. Mancando tutti del rispetto per la parola dell’atro, ogni locutore è più o meno coscientemente convinto che il suo uditore cercherà l’occasione per criticarlo. Un’altra sfumatura d’apportare alla nostra questione : la dimensione culturale. Infatti, alcune culture sono più predisposte alla critica che altre, ma quelle in cui la critica è considerata come una carenza delle buone maniere e delle convenzioni sociali esprimeranno la loro reticenza, il loro disprezzo, o il loro disinteresse, sia con un’educata approvazione, sia con l’espressione manifesta di un interesse, che tutti sanno sostanzialmente superficiale, effimero, addirittura ipocrita. Ma ci siamo accorti che le società in cui le maniere sono più cortesi non sono necessariamente quelle dove regna la minor insicurezza quanto allo statuto della parola individuale. Diciamo che ogni gruppo umano ha i propri modi d’autorizzare, di giustificare, o anche d’incoraggiare il discredito dell’altro.

 PENSARE MEDIANTE L’ALTRO

Ritorniamo a Socrate. Stranamente, lui si interessa moltissimo alla parola dell’altro. Aggiungiamo anche che non potrebbe pensare senza l’altro. Altrimenti, potremmo domandarci perché quest’uomo dal viso così grottesco trascorreva il suo tempo a ricercare la compagnia dei suoi simili soprattutto in vista di praticare l’interrogazione filosofica. Non aveva nulla di meglio da fare, quest’uomo dallo spirito agile e sagace? Perché perdere il proprio tempo con chiunque e a proposito di, quasi, qualsiasi cosa? Alcuni dei personaggi che Platone ci descrive non sono molto brillanti, perché per Socrate la ricerca della verità non conosce molti limiti, né presupposti stabiliti. Tutto è buono, quando si tratta di scavare il bene, il vero o il bello, e se c’è ostacolo, quest’ostacolo diventa il crogiolo stesso dell’essere e dell’uno. Socrate vuole fare opera di carità? Milita per un’umanità migliore? Si annoierebbe da solo, impacciato in una solitudine filosofica, alla guisa del mitico filosofo della caverna? Vuole convincere? In fondo, per lui anche la verità non è che un pretesto. Ha bisogno di cercare qualche cosa che ignori, sondare l’anima umana e, se molti filosofi sondarono la loro, lui si sente spinto dal suo “démone” a esplorare tutte quelle che passano, le une e le altre, nel contempo, più promettenti, più deludenti e più ricche. Non bisogna cercare qui una teleologia: Socrate non cerca niente, semplicemente cerca, cerca di cercare.

Ma questa ricerca gli procura molte noie. Prima di tutto, perché senza volerlo e, senza dubbio, senza saperlo, o senza volerlo sapere, rompe i codici stabiliti. Troppo occupato dal suo desiderio, accecato dalla sua passione, non sa nulla né vede nulla, lui non esiste più: lui cerca. Cane da caccia che insegue la sua preda fino alla sua tana, pesce torpedine che paralizza chi entra in contatto con lui, tafano che pizzica e tormenta colui che lo avvicina: le metafore persuasive non mancano per spiegare o giustificare il suo assassinio. La morte di Socrate, gesto inaugurale della filosofia occidentale, non è totalmente inevitabile? Ma perché il fatto di questionare l’altro potrebbe rendere la sua presenza così insopportabile per i suoi concittadini ateniesi, che nel mito socratico non rappresentano nient’altro che l’essere umano nella sua generalità? Certamente alla lunga, vivere con un tale personaggio può rivelarsi difficile, in particolare per i suoi parenti, ma perché si attirerebbe un tale odio? Sicuramente, un odio che non si attirerebbe se si accontentasse di essere in disaccordo con i suoi simili e neanche se non facesse che insultarli, come i cinici. Ma il questionare filosofico è – bisogna crederlo – decisamente più corrosivo dell’affermazione. Si interessa da troppo vicino alla parola dell’altro, e l’altro in verità, contrariamente a ciò che spesso proclama, non desidera che ci si interessi da troppo vicino alla sua parola. Poiché l’accesso che conduce dalla sua parola fino al suo pensiero è troppo diretto, il legame tra il suo pensiero e il suo essere è troppo esplicito. E se l’individuo, a partire dalla sua più tenera infanzia, mette tutto in opera pur di dimenticare la propria finitudine, la sua imperfezione, la sua infermità e immoralità, non è per accettare che una specie di perverso sbarchi e, in modo irrispettoso, intrusivo e brutale, domandi come si nomina questo handicap, o questa piaga che con molto sforzo nascondiamo, mentre i vicini girano pudicamente e automaticamente lo sguardo se mai qualcosa dovesse esser svelato solo un tantino. Che specie simpatica che è quella dell’uomo, che spende tante energie per nascondere la sua natura individuale, realtà di cui si vergogna, una natura specifica che arriviamo a considerare, né più né meno, come una di quelle malattie dall’origine incerta di cui bisogna nascondere sia l’esistenza che la causa. É senza dubbio per questa ragione che lui ignora la sua vera natura, quella d’essere umano.

CATTIVE MANIERE

In conseguenza alla realtà socratica e ai conflitti che genera, risulta il termine finale – o iniziale – della messa in accusa: “Tu devi avercela con me”, o altrimenti, “Le tue intenzioni devono essere cattive”. Poiché, non è naturale interessarsi in tal modo ai discorsi e al pensiero altrui, non è normale interrogare in una simile maniera, invece di dire e di affermare, decorticare in un modo così abusivo la più piccola parola che ascoltiamo è considerato indecente. Una rottura delle tradizioni che mette in questione l’andamento abituale. Perché, se un tale comportamento non fosse considerato perverso, allora, non potremmo che ammirare un simile uomo, un saggio capace di una tale ascesa, di una simile indigenza, animato da una tale fiducia nell’altro e che, quale che sia il suo consimile, crede in permanenza di poter scoprire la verità. Giacché, è ciò che in fin dei conti anima Socrate. Ma ahimè, la fragilità umana, la sua insicurezza, percepisce questo procedimento fiducioso e seducente come un’aggressione. Questionare qualcuno è dichiarargli la guerra, è volerlo umiliare, significa provare a ridurlo a nulla o, in breve, è obbligarlo a pensare e, soprattutto, obbligarlo a pensare a se stesso. Conosci te stesso! Così tu conoscerai l’universo e gli dei. Infatti, che significherebbe l’oggetto conosciuto se ignorassimo lo strumento del pensiero, lo spirito stesso, come lo ricorda Hegel? Ora, è precisamente la conoscenza del nostro spirito che ci spaventa. Poiché, se siamo sedotti quando qualche filosofo che parla bene ci spiega l’apertura dell’anima umana, considerata nella sua generalità, o quando comprendiamo, o intravediamo l’accecamento o la banalità nella quale vivono i nostri concittadini, tuttavia, quando ci accorgiamo che il discorso si indirizza a noi personalmente, allora, ci smontiamo violentemente. Questo non si fa!

ACCETTARE LA FINITUDINE

Dunque, come riconciliarsi con la propria parola e quindi riconciliarsi con se stessi, se non accettando di vedere le aperture e le tare che affliggono il nostro discorso, se non contemplando le rigidità che ne costituiscono l’elaborazione e intravedendo i limiti che ne rappresentano l’estensione? Riconciliarsi con la propria parola, significa accettare la finitudine, l’imperfezione, a rischio di un profondo sentimento di ridicolo. Non amiamo i nostri genitori e i nostri vicini a discapito dei loro difetti o dei loro tic? Dobbiamo essere ciechi per amare coloro che ci circondano? Se è questo il caso, rischiamo seriamente di smontarci non appena gli occhi si aprano, per effetto dell’usura del tempo o in contraccolpo a qualche avvenimento fortuito e generalmente drammatico. La stessa cosa accade nel rapporto con noi stessi. Possiamo sicuramente provare, coscientemente o no, a trattenere l’illusione di una trasparenza, di un benessere, di una soddisfazione, di una contentezza qualunque, rischiando la compiacenza effimera, o frammentaria, e una delusione certa. É qui che Socrate in questione, o il suo equivalente, lo straniero dei dialoghi tardivi, può esser considerato come il nostro vero amico. Colui che osa parlarci in assoluta franchezza, colui che osa puntare il dito verso l’altrove. Quest’altrove è quello che ci obbliga a portare dei paraocchi, poiché come il classico cavallo da carretta, non potremmo sopportare certe realtà laterali: ci renderebbero nervosi. Guardiamo dritto davanti a noi e perseguiamo il nostro cammino senza preoccuparci delle richieste che arrivano dai margini e che ci farebbero esitare, dubitare, che potrebbero addirittura paralizzarci.

Socrate ci interpella: “Ehi amico, vedi quello che accade qui?” “Che pensi di questo, o di quello?” Così ci ascolta mentre rispondiamo, con la falsa ingenuità che lo caratterizza. Ma l’umano è furbo, così come il cane o il felino, lui sa sentire il vento. Istintivamente vede la bestia sopraggiungere. Ed è qui che si trova l’esperienza cruciale, il momento della decisione, quella che separa gli umani dagli umani. Vuole reagire “biologicamente” e fuggire o aggredire colui che minaccia la sua “integrità” esistenziale? O invece, percepirà quest’uomo dall’aspetto e dal discorso strano come il vero amico che non ha mai incontrato? L’amico che non ha amici. L’innamorato senza amante. Colui che è animato da una passione senza oggetto. O invece, ne è lui stesso l’oggetto, anche ignorando chi ne sia il soggetto, quale ne sia il soggetto. Ben inteso, è un amico divertente, dall’umorismo più che strano: qual é quest’ironia che è solo una bugia? Come possiamo dargli fiducia? E’ carne o pesce? E a mo’ di discorso, ci interroga. Peggio ancora, ci costringe alla scelta miserabile – se ce n’è veramente una – tra un “si” e un “no”, tra un “questo” e un “quello”. Perché è visibile che molte di queste domande sono tranelli. Ma allo stesso modo, poiché noi ci siamo lanciati in questa prospettiva impossibile, vediamo come quest’uomo, che non ha nulla di umano, possa ancora volerci del bene. Giustamente, non ce ne vuole, del bene. É qui il suo principale interesse. Lui, non vuole che il suo proprio bene, lo cerca, ha bisogno di noi, lo dice, non è che un quarto d’ironia, quando domanda a tutti e a ognuno di diventare il suo maestro, il maestro che cerca da sempre.

Sicuramente, a termine, la frequentazione di un tale essere non può diventare che insopportabile. Ma ha mai domandato a qualcuno di vivere con lui? I suoi interlocutori sono numerosi, sembra che ne cambi frequentemente con il susseguirsi dei dialoghi, e ciò non deve essere una casualità. Coloro che dice di amare cambiano con il succedersi dei dialoghi. Platone, che farà di quest’essere la sua prelibatezza, prima di lanciarsi verso la propria traiettoria, l’ha conosciuto solo per breve tempo. Ciò spiega senza dubbio la passione che lo anima. A termine, l’effetto corrosivo dell’interrogazione non può che provocare l’allontanamento.

UN AMICO CHE NON VUOLE IL NOSTRO BENE

Tuttavia, ciò che rende Socrate vivibile, come abbiamo già detto, ciò che lo rende un vero amico, è proprio il fatto che lui non vuole il nostro bene. Non vuole convincere di nulla, non desidera mostrarci il vero cammino. Ci questiona, semplicemente, e ci invita a vedere, a vedere ciò che non vediamo, ciò che non vogliamo vedere, a vedere ciò che è insopportabile. In questo senso, ci invita a morire. Poiché se filosofare è apprendere a morire, qui non è questione di una morte ulteriore e finale, ma di quella di ogni istante. Quella che incombe, così come la spada di Damocle, al di sopra delle nostre teste stordite dall’infatuazione del quotidiano. Divertimento pascaliano. Le nostre idee sono costituite da queste molteplici opinioni che ci bastano per giocare le regole del gioco. Gioco della società, gioco della famiglia, gioco dei desideri e delle ambizioni personali, ricerca della felicità, della grande o della piccola felicità. La perseveranza nell’essere, il “conatus” spinoziano, è troppo spesso concepito come quello di una pura esteriorità. Vivere assume generalmente il senso di una molteplicità di obbligazioni, interne ed esterne, che si tratterebbe di soddisfare, sia bene che male. Pertanto, l’essere non è che uno, per Socrate come per Spinoza, anche se questa unità non esclude nessuna molteplicità, anzi al contrario. Tuttavia, il frammento ne è la sostanza viva, poiché non si tratta neanche di prendere il volo verso un al di là dell’al di là dove si anniderebbe ogni realtà.

Come ben racconta il mito della caverna, il filosofo che noi siamo non saprebbe vivere fuori dalla caverna: è il suo luogo di predilezione. É in noi l’amico che ci da una cattiva coscienza, colui che lasciamo parlare per riderne alla prima occasione, e dopo ci arrabbiamo per farlo tacere. Poiché non siamo sempre – e spesso – dell’umore adatto per farci interrompere o per farci turbare il nostro piccolo tran-tran, per farci travolgere l’equilibrio instabile che bene o male riusciamo comunque a far funzionare. Filosofare, è pensare l’impensabile, un impensabile che non ci permette affatto di esistere. Ci obbliga all’evidenza, al certo, all’atteso. Preferisce il certo, ama il probabile, e teme l’impossibile. Di quando in quando, per inoperosità, per stanchezza, o per risorgiva dell’essere, autorizza il sorgere dello straordinario, dell’imprevisto, dell’inaudito. A dosi omeopatiche, o per un tempo ristretto e spesso in modo perverso. L’amore, il divertimento, la visione mistica, l’ebbrezza, sono altrettante maniere con cui la vita si distrae da se stessa, per gioco e per oblio. La filosofia esige una simile rottura in modo cosciente, deliberato e costante. Ovviamente, ognuno avrà conosciuto, in un momento o in un altro, un attimo filosofico, quest’istante in cui il senso precipita, in un altro senso o nell’insensato. E il vissuto di quest’istante potrà generare, anche se raramente realizzare, un desiderio d’altrove, non l’altrove in cui vivere, ma l’altrove che la vita. Anche se qualcuno, anche qui lo spirito è straordinariamente furbo, cerca di instaurare una vita fuori dalla vita, al di là della vita.

Riconciliarsi con la propria parola, così come riconciliarsi con i propri vicini, implica il fatto di non avere più delle aspettative e, quindi, di non essere più frustrati o delusi, o meglio ancora, di non poter essere delusi e frustrati. Ciò, comunque restando, non implica assolutamente l’abbandono dello spirito critico, anzi al contrario. Perché, molto spesso, ciò che impedisce di impegnarci in un’analisi corrosiva e profonda delle intenzioni e degli esseri, è il timore della perdita, attraverso il timore del contrasto, della ferita, o semplicemente quella della suscettibilità oltraggiata. A partire dal momento in cui non sussiste nessun desiderio di conservare un attaccamento altro che quello legato alla ricerca comune della verità, generata per se stessa, cosa resta da temere ? Molto naturalmente, se non è sottoposto a maltrattamenti nel suo impeto, se non ha preso l’abitudine ad ostacolarsi di pensare, lo spirito pensa: lui sa ciò che percepisce in un rapporto intimo e dinamico con la matrice dei pensieri che ha costituito durante gli anni. Ben inteso, queste matrici saranno più o meno elaborate, più o meno fini e più o meno fluide, ma costituiranno comunque per ogni soggetto pensante l’auna/misura di ogni nuovo pensiero, il riferimento attivo, il luogo originario, quello da cui tutti i pensieri provengono, dove tutti i pensieri fanno ritorno. È d’altronde in questo senso che la parola è accesso all’essere, che la parola finisce di essere un discorso. Poiché in quest’intimità con se stessi, l’oggetto del pensiero non è più un oggetto, ma è il soggetto stesso. Il soggetto pensante diviene, allora, l’oggetto diretto del pensiero, la mediazione diviene il luogo dell’immediato, di un immediato cosciente e riflesso.

La consulenza filosofica – Principi e difficoltà

LA CONSULENZA FILOSOFICA:PRINCIPI E DIFFICOLTÀ

Parodie consultationEncora poco conosciuta, la consulenza filosofica è un’attività che sviluppa gradualmente in Olanda, in Germania, in Stati Uniti o negli Italia. I metodi variano enormemente a discrezione dei praticanti che li concepiscono e li applicano. In questo articolo, Oscar Brenifier indaga le concezioni e i metodi che utilizza nel lavoro che fa da molti anni in questo dominio.

I – PRINCIPI

Naturalismo filosofico:

Da qualche anno, un nuovo vento sembra soffiare sulla filosofia. Sotto diverse forme, c’è come la pretesa costante di estirpare la filosofia dal suo contesto esclusivamente universitario e scolastico, dove le prospettive storiche restano il vettore principale. Diversamente recepita e apprezzata, questa tendenza per alcuni incarna un’ossigenazione necessaria e vitale, per altri un volgare e banale tradimento, degno di un’epoca mediocre. Da alcune di queste “novità” filosofiche emerge l’idea che la filosofia non si riduce unicamente all’erudizione e al discorso, ma che è anche una pratica. Per intenderci, questa prospettiva non è veramente innovatrice, nella misura in cui rappresenta un ritorno alle preoccupazioni originali, a una ricerca di saggezza che articola il termine stesso filosofia; sebbene questa dimensione sia relativamente occultata da più secoli in favore della sfaccettatura “erudita” della filosofia.

Tuttavia, a dispetto del versante “già visto” della faccenda, i profondi cambiamenti culturali, psicologici, sociologici e altri che allontanano la nostra epoca per esempio dalla Grecia classica, alterano radicalmente i dati del problema. La filosofia perenne si vede dunque obbligata a fare i conti con la storia, la sua immortalità può difficilmente fare l’economia della finitudine delle società che formulano le loro problematiche e le loro prospettive. Inoltre la pratica filosofica – come le dottrine filosofiche – deve elaborare le sue articolazioni in correlazione al suo luogo e alla sua epoca, in funzione delle circostanze che generano questa matrice momentanea, anche se in fin dei conti non sembra possibile evitare, uscire o superare il numero ristretto delle grandi problematiche che dall’alba dei tempi costituiscono la radice di tutte le riflessioni di tipo filosofico, qualsiasi sia la forma esteriore presa dalle sue articolazioni.

Il naturalismo filosofico che noi evochiamo qui è al centro del dibattito, in quanto critica la specificità della filosofia sul piano storico e geografico. Suppone che l’emergenza della filosofia non sia un avvenimento particolare, ma che la sua sostanza viva abiti al cuore dell’uomo e rivesta la sua anima, anche se come ogni scienza o conoscenza, certi momenti e certi luoghi appaiono più determinanti, più espliciti, più favorevoli, più cruciali di altri. Come esseri umani noi condividiamo un mondo comune (a discapito dell’infinità di rappresentazioni che fa subire a quest’unità un serio arresto) e una condizione – o natura- comune (là ancora a discapito del relativismo culturale e individuale-ambientale), noi dovremmo poter ritrovare, almeno in maniera embrionale, un certo numero di archetipi intellettuali che costituiscono l’armatura del pensiero storico. Dopo tutto, la forza di un’idea riposa sulla sua operatività e universalità, ogni idea fondamentale dovrebbe trovarsi in ciascuno di noi. Non c’è qui, espressa in altri termini e percepita sotto un’altra angolatura, l’idea stessa della reminescenza platonica? La pratica filosofica diviene allora quest’attività che permette di risvegliare ciascuno al cospetto del mondo delle idee che lo abita, così come la pratica artistica ridesta ciascuno al mondo delle forme che lo abita, ciascuno secondo le sue possibilità, senza per tanto essere tutti dei Kant o dei Rembrandt.

La doppia esigenza

Due pregiudizi particolari e correnti sono da scartare per comprendere meglio l’itinerario che qui ci investe. Il primo pregiudizio consiste nel credere che la filosofia, e dunque la discussione filosofica, sia riservata a un’élite di sapienti, questo vale anche o per la consultazione filosofica. Il secondo pregiudizio, all’inverso del primo – suo complemento naturale- consiste a pensare che la filosofia sia a tutti gli effetti riservata a un’élite erudita, cosa che comporta peraltro come conclusione che la consultazione filosofica non possa essere filosofica perché aperta a tutti. Questi due pregiudizi esprimono un’unica frattura; ci resta da dimostrare simultaneamente che la pratica filosofica è aperta a tutti e che implica una certa esigenza che la distingue dalla semplice discussione. Per giunta bisognerà differenziare per quel che si può la nostra attività dalla pratica psicologica o psicanalitica con la quale, qui non si mancherà di confonderla.

I primi passi

“Perché voi siete là?’” Questa questione inaugurale si impone come la prima, la più naturale, quella che si deve porre in permanenza a chiunque se non a se stessi. È deplorevole che ogni insegnante impegnato in un corso di introduzione alla filosofia non cominci il suo anno scolastico con questo genere di questioni ingenue. Attraverso questo semplice esercizio, l’allievo, abituato ad anni di routine scolastica, scoprirà sin dall’inizio la portata di questa materia strana che interroga sino alle evidenze le più lampanti; la difficoltà di rispondere realmente a una tale interrogazione così come il largo ventaglio di risposte possibili faranno esplodere in maniera prorompente l’apparente banalità della questione. Ben inteso, si tratta però di non accontentarsi di abbozzi di risposte che si formulano controvoglia per evitare di pensare. Durante la consultazione, la maggior parte delle prime risposte sono del genere: “perché io non conosco a tal punto la filosofia”, “perché la filosofia mi interessa e vorrei saperne di più”, o ancora “perché amerei sapere quello che dice il filosofo – o la filosofia – a proposito di…”. Il questionare deve proseguire senza tardare, al fine di rilevare i presupposti non dichiarati da questi tentativi di risposte e per non soffermarsi su queste non-risposte. Codesto processo non mancherà di far apparire alcune concezioni del soggetto (persona impegnata nella consultazione) a proposito della filosofia o di un qualsiasi altro tema abbordato, implicandolo in una presa di posizione necessaria a questa pratica. Non perché occorra necessariamente conoscere “il fondo” del suo pensiero, contrariamente alla psicanalisi, ma in quanto si tratta di arrischiarsi su un’ipotesi al fine di lavorarla. Quest’ultima distinzione è importante, per due ragioni che toccano da vicino le basi del nostro lavoro. La prima è che la verità non avanza necessariamente sotto il riparo della sincerità o di un’”autenticità” soggettiva, essa può essergli radicalmente opposta; opposizione che si calca sul principio secondo cui la voglia spesso contrasta la ragione. Da questo punto di vista, poco importa che il soggetto aderisca all’idea che avanza. “Non sono sicuro di quello che dico (o voglio dire)” si sente sovente. Ma di cosa si vorrebbe essere sicuri? Questa incertezza non è essa giustamente quella che ci permetterà di mettere alla prova la vostra idea, mentre ogni certezza inibirebbe un tale processo? La seconda ragione, vicina alla prima, è che deve istallarsi una distanza, necessaria a un lavoro riflessivo e , condizione indispensabile alla concettualizzazione che noi vogliamo indurre. Due condizioni che non devono per nulla impedire al soggetto di rischiarsi su delle idee precise, lo farà al contrario più liberamente. Lo scienziato discuterà con più facilità delle idee sulle quali non investe in maniera inestricabile il suo ego, senza per questo impedire che un’idea gli piaccia o gli convenga più di altre. Una volta che l’ipotesi viene espressa e abbastanza sviluppata (direttamente o grazie a delle questioni) l’interrogatore proporrà una riformulazione di quanto sentito. Generalmente il soggetto esprimerà un certo rifiuto iniziale – o accoglierà in maniera mitigata – la formulazione proposta: “Non è quello che ho detto”. “Non è quello che ho voluto dire”. Gli sarà allora proposto di analizzare ciò che non gli piace in questa formulazione o di ratificare il suo proprio discorso. Tuttavia, dovrà dapprima precisare se la riformulazione ha tradito il discorso cambiando la natura del suo contenuto (cosa che deve essere posta come possibile, l’interrogatore non è perfetto) o se l’ha tradita rivelando alla luce del giorno ciò che non osava vedere e ammettere nelle sue proprie parole. Si coglie qui lo spessore enorme che pone sul piano filosofico il dialogo con l’altro: nella misura in cui si accetta il difficile esercizio di “pensare” le parole, l’uditore diviene uno specchio impietoso che ci rinvia duramente a noi stessi. La presenza dell’altro è sempre un rischio, di cui ignoriamo troppo la portata.

Quando ciò che è stato espresso inizialmente non pare più riformulabile, per confusione o mancanza di chiarezza, l’interrogatore potrà senza esitazione chiedere al soggetto di ripetere ciò che ha già detto o di esprimerlo altrimenti. Se la spiegazione è troppo lunga o diventa pretesto per una parola di sfogo (di tipo associativo o incontrollato), l’interrogatore non esiterà a interrompere: “Io non sono sicuro di comprendere dove state andando a parare. Io non colgo esattamente il senso delle vostre parole”. Potrà allora proporre l’esercizio seguente: “Ditemi in una sola frase ciò che vi sembra essenziale nella vostra proposta. Se voi aveste a disposizione una sola frase da dirmi per questo soggetto, quale sarebbe?”. Il soggetto non mancherà di esprimere la sua difficoltà rispetto all’esercizio, soprattutto quando viene a manifestare il suo handicap a formulare una parola chiara e coincisa. Ma è nella costatazione di questa difficoltà che comincia anche la presa di coscienza legata al filosofare.

Anagogia e discriminazione

Una volta chiarificata a sufficienza l’ipotesi di partenza, sulla natura del filosofare che porta il soggetto al colloquio, o su un altro tema che lo preoccupa, si tratta di lanciare il processo di risalita anagogica descritto nelle opere di Platone. Gli elementi essenziali sono quelli che noi chiameremo da una parte “l’origine” e dall’altra la “discriminazione”. Noi cominceremo per domandare al soggetto di rendere conto della sua ipotesi chiedendogli di giustificare la sua scelta. Sia per mezzo dell’origine “Perché tale formulazione?” “Qual è l’interesse di una tale idea?” sia per mezzo della discriminazione “Qual è il più importante tra i diversi elementi espressi?” “Qual è la parola chiave del vostro pensiero?” Questa parte del colloquio si effettua combinando a turno entrambi gli elementi.

Il soggetto tenterà spesso di sfuggire a questa tappa della discussione rifugiandosi nel relativismo della circostanza o nella molteplicità indifferenziata. “Questo dipende[…]Ci sono molte ragioni […] Tutte le parole o le idee sono importanti”. Il fatto di scegliere, di obbligare a “vettorializzare” il pensiero, permette inizialmente di identificare gli ancoraggi, i “ritornelli”, le costanti, i presupposti, per poi metterli alla prova. Dopo molte tappe di risalita (origine e discriminazione), appare una sorta di trama, che rende visibile i fondamenti e le articolazioni centrali del pensiero. Nello stesso tempo, attraverso la gerarchizzazione assunta dal soggetto, si effettua una drammatizzazione dei termini e dei concetti, che fa uscire le parole dalla loro totalità indifferenziata, dall’effetto “massa” che sfuma le singolarità. Separando le idee le une dalle altre, il soggetto diventa cosciente degli operatori concettuali attraverso i quali discrimina.

Ben inteso, l’interrogatore ha qui un ruolo chiave, che consiste nel sottolineare ciò che sta per essere detto, affinché le scelte e le loro implicazioni vengano percepite. Questo potrà anche insistere chiedendo al soggetto se si assume pienamente le scelte che sta esprimendo. Dovrà tuttavia evitare di commentare, dovrà lasciare a riposo certe questioni complementari se intravede dei problemi o delle inconseguenze in quello che sta venendo articolato. Cosa che l’estirpa lentamente dall’illusione che intrattengono i sentimenti di evidenza e di neutralità, in generale l’illusione dell’opinione e in particolare di quella sua propria, propedeutica necessaria all’elaborazione di una prospettiva critica.

Pensare l’impensabile

Una volta identificato un punto fermo particolare, è venuto il momento di prendere il contro-piede. Si tratta dell’esercizio che noi chiamiamo “pensare l’impensabile”. Qualunque sia l’ancoraggio di riferimento o la tematica particolare che il soggetto avrà identificato come centrale alla sua riflessione, noi gli chiederemo di formulare e sviluppare l’ipotesi contraria “Se voi avreste una critica da formulare contro la vostra ipotesi, quale sarebbe?” Quale obiezione, la più consistente, conoscete o potete immaginare rispetto alla tesi che vi sta a cuore? Quali sono i limiti della vostra idea?” Che sia l’amore, la libertà, la felicità, il corpo o altro a costituire il fondamento o il riferimento privilegiato del soggetto, nella maggior parte dei casi ci si sentirà incapaci di effettuare un tale capovolgimento intellettuale. Pensare una tale “impossibilità” donerà l’effetto di cadere nel precipizio. Alcune volte ci sarà il grido del cuore “Ma io non voglio”.

Questo momento di tensione serve prima di tutto ad effettuare una presa di coscienza su un condizionamento psicologico o concettuale del soggetto. Invitandolo a pensare l’impensabile, lo si invita ad analizzare, a comparare e soprattutto a deliberare, piuttosto che a prendere per acquisito e irrifiutabile tale o tale ipotesi di funzionamento intellettuale ed esistenziale. Coglie allora le rigidità che formano il suo pensiero di cui non si rendeva conto. “Ma allora non si può più credere a niente!”si lascerà sfuggire. Sì, ma almeno per la durata di un esercizio, durante un’oretta, domandarsi se l’ipotesi inversa, se la “credenza” inversa non tenga altrettanto bene la strada. Dunque, stranamente, con grande sorpresa del soggetto, una volta che si rischia in quest’ipotesi inversa, comprende che ha più senso di quanto non credesse a priori e che in ogni caso chiarisce in maniera interessante la propria ipotesi di partenza, di cui riesce ora a comprendere meglio la natura e i limiti. Questa esperienza fa vedere e toccare con mano la dimensione liberatrice del pensiero, nella misura in cui permette di rimettere in questione le idee sulle quali ci si contrae inconsciamente, di distanziarsi da sé, di analizzare i propri schemi di pensiero – quanto alla forma e al fondo- e di concettualizzare le proprie prospettive e i propri problemi esistenziali.

Passare al “primo piano”

Come conclusione, sarà proposto al soggetto di ricapitolare i passaggi importanti della discussione, al fine di rivedere e riassumere i momenti forti e significanti. Questo si compie sotto la forma di un ritorno sull’insieme dell’esercizio. “Che cosa è accaduto qui?” Questa ultima parte del colloquio si chiama anche “passare al primo piano”: analisi concettuale in opposizione al vissuto del “piano terra”. Da questa prospettiva sopraelevata, la sfida consiste nel vedersi agire, nell’analizzare lo sviluppo dell’esercizio, nel valutarne i problemi, nell’uscire dal frastuono dell’azione e dal filo della narrazione, per catturare gli elementi essenziali della consultazione, i punti di inflessione del dialogo. Il soggetto si coinvolge in un meta-discorso che riguarda il tentativo compiuto dal suo pensiero. Questo momento è cruciale, in quanto è il luogo della presa di coscienza del funzionamento doppio (dentro/fuori) dello spirito umano, intrinsecamente legato alla pratica filosofica. Consente l’emergere della prospettiva all’infinito che fa sì che il soggetto acceda a una visione dialettica del suo proprio essere, all’autonomia del proprio pensiero.

È dunque filosofico?

Cosa cerchiamo di fare attraverso questi esercizi? In che cosa sono filosofici? Come la consultazione filosofica si distingue dalla consultazione psicanalitica? Come è già stato evocato, tre criteri particolari specificano la pratica in questione: identificazione, critica e concettualizzazione. (Menzioniamo un altro criterio importante: la distanziazione, che tuttavia noi non riteniamo come quarto elemento poiché è implicitamente contenuto negli altri tre). In una certa maniera, questa tripla esigenza cattura bene ciò di cui necessita la redazione di una dissertazione. In quest’ultima, a partire da un soggetto imposto, l’alunno deve esprimere qualche idea, metterla alla prova e formulare una o più problematiche generali, con o senza l’aiuto degli autori consacrati. La sola differenza importante porta sulla scelta del tema da trattare: qui il soggetto sceglie il suo proprio oggetto di studio, cosa che accresce la portata esistenziale della riflessione, rendendo può essere più delicato il trattamento filosofico di questo soggetto.

L’obiezione sul versante “psicologizzante” dell’esercizio non è da scartare troppo rapidamente. Da un lato perché la tendenza del soggetto – in faccia a un interlocutore unico che si consacra al suo ascolto- di sfogarsi senza ritegno alcuno rispetto al suo risentimento è grande, soprattutto se ha già preso parte a dei colloqui di tipo psicologico. Si sentirà dunque frustrato nel sentirsi interrotto, nel dover portare i suoi giudizi critici sulle sue idee, nel dover discriminare tra le sue diverse proposizioni, etc… Tante obbligazioni che fanno però parte del “gioco”, delle sue esigenze e delle sua messa alla prova. Dall’altro lato poiché, per ragioni diverse, la filosofia tende ad ignorare la soggettività individuale, per consacrarsi soprattutto all’universale astratto, alle nozioni disincarnate. Una sorta di pudore estremo, vedi il puritanismo che conduce il professionista della filosofia a temere l’opinione a tal punto da volerla ignorare, piuttosto che cogliere in questa opinione l’inevitabile punto di partenza di ogni filosofare, che questa opinione sia quella del comune mortale o quella dello specialista, quest’ultimo si trova non meno vittima di questa “malsana” e funesta opinione.

Anche il nostro esercizio consiste dapprima ad identificare nel soggetto, attraverso delle opinioni, i presupposti non dichiarati, a partire dai quali funziona. Cosa che permette di definire ed approfondire i punti di partenza. In un secondo momento consente di prendere il contro-piede in faccia a questi presupposti, al fine di trasformare degli indiscutibili postulati in semplici ipotesi. In una terza fase si tratta di articolare le problematiche generate attraverso dei concetti identificati e formulati. In questa ultima tappa – o prima se l’utilità si fa sentire anticipatamente – l’interrogatore potrà utilizzare delle problematiche “classiche”, attribuibili a un autore, al fine di valorizzare o meglio identificare tale problematica che appare lungo il corso del colloquio.

Certo è dubbio che l’individuo singolare rifaccia da solo tutta la storia della filosofia, non meno che altrove quella delle matematiche o del linguaggio. Per giunta perché bisognerebbe disdegnare il passato? Noi saremo sempre dei nani appollaiati sulle spalle dei giganti. Ma bisognerà allora non rischiarsi nella ginnastica, accontentandosi di guardare e ammirare gli atleti con il pretesto che siamo corti di gamba, cioè handicappati? Sarà sufficiente accontentarsi di andare al Louvre senza mettere le mani nell’argilla con il pretesto che le nostre membra non hanno l’agilità di quelle degli esseri inspirati? Sarà mancare di rispetto ai “grandi” volerli imitare? Non sarà piuttosto onorarli, ammirandoli e citandoli nello stesso tempo? In fin dei conti, noi non siamo per la maggior parte spinti a pensare per noi stessi?

II. LE DIFFICOLTÁ

il nostro metodo si inspira principalmente alla maieutica socratica, dove la filosofia interroga il suo interlocutore, lo invita a identificare le problematiche del suo discorso, a concettualizzare distinguendo dei termini chiave al fine di metterli all’ opera, di problematizzarli attraverso una prospettiva critica e di utilizzarne le implicazioni. Precisiamo a titolo comparativo che questa pratica ha come specificità quella di invitare il soggetto ad allontanarsi da un semplice risentimento per consentirgli un’analisi razionale della sua parola e di se stesso, condizione senza la quale non può deliberare sulle sue problematiche cognitive ed esistenziali che si tratta come prima cosa di spiegare. Lo sradicamento da sé che presuppone una tale attività, poco naturale, ragione per la quale necessita dell’assistenza di uno specialista, pone un certo numero di difficoltà che tenteremo qui di analizzare.

Le frustrazioni:

Al di là dell’interesse per l’esercizio filosofico, predomina regolarmente nel soggetto, almeno in maniera momentanea, un sentimento negativo, che è espresso più frequentemente – nelle consultazioni filosofiche come durante gli ateliers di riflessione di gruppo – sottoforma di frustrazione. Primo, la frustrazione dell’interruzione: non essendo il colloquio filosofico il luogo dello sfogo o della convivialità, un parlare incompreso e lungo, o ancora un parlare che ignora l’interlocutore, deve essere interrotto; se non nutre direttamente il dialogo, se non serve al colloquio e non ha la sua collocazione nel contesto dell’esercizio. Secondo, la frustrazione legata all’asprezza: si tratta di analizzare la parola piuttosto che pronunciarla, e tutto ciò che noi avremo detto potrà essere utilizzato “contro noi”. Terzo, la frustrazione della lentezza: non è questione di provocare un’accumulazione e una calca di parole, non bisogna temere né il silenzio, né il soffermarsi su una parola data per apprenderne pienamente la sostanza, nel doppio senso del termine apprendere: catturare e aver timore. Quarto, la frustrazione del tradimento, là ancora nel duplice significato del termine: tradimento della nostra propria parola che rivela ciò che noi non desideriamo dire o sapere e tradimento della nostra parola che non dice ciò che vogliamo dire. Quinto, la frustrazione dell’essere: non essere ciò che noi vogliamo essere, non essere ciò che noi crediamo di essere, vedersi spossessati di verità illusorie che coltiviamo, coscientemente o meno, talvolta da molto tempo, su noi stessi, sulla nostra esistenza e sul nostro intelletto.

Questa frustrazione multipla non è sempre chiaramente espressa dal soggetto. Se è abbastanza emotivo, suscettibile, o poco incline all’analisi, non esiterà a denunciare la censura, l’oppressione. “Voi mi impedite di parlare” allorché dei lunghi silenzi inutili, inoccupati dalla parola, punteggiano periodicamente questa stessa parola che trova difficoltà a trovarsi. O ancora: “Voi mi fate dire ciò che voi volete”, allorché ad ogni questione il soggetto può rispondere ciò che gli conviene, con il solo rischio di generare delle nuove questioni. Inizialmente, la frustrazione si esprime come un rimprovero, tuttavia, verbalizzandolo, permette di diventare un oggetto per se stesso, può consentire al soggetto che l’esprime di diventare oggetto dinnanzi a se medesimo. A partire da questa costatazione, diventa capace di riflettere, di analizzare il suo essere attraverso la messa alla prova, di comprendere meglio il suo funzionamento intellettuale, e può allora intervenire su di sé, tanto sul suo essere quanto sul suo pensiero. Certo il passaggio in questo momento – o in alcuni momenti – alla tonalità psicologica è difficilmente evitabile, si tratta tuttavia di non soffermarsi troppo, ma di passare rapidamente alla tappa filosofica successiva, per mezzo della prospettiva critica che tenta invece di definire una problematica e dei nodi concettuali.

La nostra ipotesi di lavoro consiste precisamente nell’ identificare certi elementi della soggettività, brandelli che possiamo chiamare opinioni, opinioni intellettuali e opinioni emozionali, al fine di prendere il contro-piede e di fare l’esperienza di un pensiero “altro”. Senza questo, come apprendere a uscire volontariamente e coscientemente da un condizionamento e dalla predeterminazione? Come riemergere dal patologico e dal puro risentimento? D’altra parte può anche accadere che il soggetto non abbia in lui la capacità di compiere questo lavoro, o nemmeno la possibilità di intraprenderlo, per mancanza di distanziazione, di autonomia, per insicurezza o a causa di una qualsiasi forte angoscia, in questo caso noi non possiamo lavorare con lui. Così come la pratica di uno sport esige delle disposizioni fisiche minime, la pratica filosofica, con le sue difficoltà e le sue esigenze, necessita di disposizioni psicologiche minime, senza le quali noi non la possiamo praticare.

L’esercizio deve effettuarsi con un grado minimo di serenità, con le diverse pre-condizioni necessarie a questa serenità. Una fragilità o una suscettibilità troppo grande impedirebbero al processo di realizzarsi. Circa la maniera in cui il nostro lavoro si definisce, la causalità di una mancanza in questo dominio non è di nostra competenza; accantonandosi rispetto alla nostra funzione, noi non sapremmo andare alle radici del problema, noi non potremmo che costatare e tirarne le conseguenze. Se il soggetto non ci sembra praticare l’esercizio sebbene senta il bisogno di riflettere su se medesimo, noi lo dirigeremmo piuttosto verso delle consultazioni di tipo psicologico, o al limite verso altri tipi di pratiche filosofiche. Per concludere, per quello che ci concerne, anche se il passaggio psicologico dimora illimitato, non c’è alcuna ragione perché venga evitato, la soggettività non deve giocare il ruolo di uno spaventapasseri, anche se una certa frangia filosofica, piuttosto scolastica, considera questa realtà individuale come un’ostruzione al filosofare. Il filosofo formale e cauto teme che facendo attrito contro questa, la distanziazione necessaria all’attività filosofica venga perduta.

La parola come pretesto

Uno degli aspetti della nostra pratica filosofica che pone problema al soggetto, è il rapporto alla parola che noi tentiamo di istallare. In effetti, da un lato noi gli proponiamo di sacralizzare la parola, dal momento che gli permettiamo di pesare con attenzione, insieme, il minimo termine utilizzato, poiché noi ci autorizziamo a scavare dall’interno, insieme, le espressioni utilizzate e gli argomenti avanzati a tal punto da renderli irriconoscibili per il loro autore, cosa che lo porterà di tanto in tanto a gridare allo scandalo vedendo la sua propria parola così manipolata. Dall’altro noi gli chiediamo di desacralizzare la parola, poiché l’insieme di questo esercizio non è composto che di parole e poco importa la sincerità o la verità di ciò che avanza: si tratta semplicemente di giocare con le idee, senza però aderire necessariamente a quanto si dice. Ci interessa solo la coerenza, gli echi che si rinviano le parole tra di loro, la sagoma mentale che si dipana lentamente e impercettibilmente. Noi chiediamo al soggetto nello stesso tempo sia di giocare a un semplice gioco, cosa che implica una presa di distanza rispetto a ciò che viene concepito come reale, sia di giocare con le parole con la più grande serietà, con la più grande applicazione, con uno sforzo maggiore rispetto a quello che mette generalmente nella costruzione e nell’analisi del suo discorso.

La verità avanza qui mascherata. Non è più verità d’intenzione, non è più sincerità e autenticità, è esigenza. Questa esigenza obbliga il soggetto a fare delle scelte, ad assumere le contraddizioni messe in chiaro lavorando la confusione della parola, con il rischio di effettuare dei radicali mutamenti di fronte, di decentrarsi brutalmente, di rifiutare di vedere e di tagliare corto, di restare muti davanti alle molteplici incrinature che lasciano prevedere i più profondi abissi, le fratture del sé, la beanza dell’essere. L’unica qualità qui necessaria all’interrogatore e a poco a poco al soggetto, è quella di un poliziotto, di un détective che va a caccia delle minime incapacità della parola e del comportamento, che chiede di analizzare a fondo ciascun atto, ciascun luogo e ciascun istante.

Certo noi ci possiamo sbagliare sulla curvatura data alla discussione, aspetto che però resta la prerogativa dell’interrogatore, il potere indiscutibile che lui detiene e deve assumere, includente anche l’assenza incontestabile di neutralità a dispetto degli sforzi che fa in questo senso. Il soggetto può anche “forviarsi” nell’analisi e le idee che avanza, influenzato dalle questioni che subisce, mosso ciecamente dalle convinzioni che desidera difendere, guidato da dei partiti presi per i quali ha già optato e da cui sarebbe può essere incapace di deliberare. “Sovra-interpretazione”, “metainterpretazione” o “sotto-interpretazione” fanno furore. Poco importa questi errori, apparenti errori o pretesi errori. Ciò che conta per il soggetto è di restare in allerta, osservare, analizzare e prendere coscienza; il suo modo di reagire, il suo modo di trattare il problema, le sue idee che emergono, il suo rapporto con sé medesimo e con l’esercizio, tutto deve diventare qui pretesto di analisi e di concettualizzazione. Per dirlo altrimenti, il fatto di sbagliarsi qui non ha più gran senso. Si tratta soprattutto di giocare il gioco. Contano solo il vedere e il non vedere, la coscienza e l’incoscienza. Non ci sono più delle buone e delle cattive risposte, ma c’è “il vedere delle risposte”, e se c’è inganno, è solamente nella mancanza di fedeltà della parola a se medesima, non più per rapporto a una qualche verità distante e preinscritta sul fondo del cielo stellato o in qualche basso-fondo subcosciente. Tuttavia questa fedeltà è una verità senza dubbio più terribile dell’altra, più implacabile: non c’è più alcuna disobbedienza possibile, con tutta la legittimità intrinseca in questa obbedienza. Non può che esserci della cecità.

Dolore e peridurale

Il soggetto diventa rapidamente cosciente della portata dell’affare. Una sorta di panico può rapidamente installarsi. Per questa ragione, è importante mettere in atto diversi tipi di “peridurale” per il parto in corso. Primo, il più importante, il più difficile e il più delicato resta l’indispensabile savoir-faire dell’interrogatore, che deve essere atto a cogliere quando è il momento appropriato di insistere su una questione e quando è il tempo di passare oltre, di “scivolare”, quando è tempo di dire o di proporre piuttosto che di interrogare, quando è tempo di alternare tra l’aspro e il generoso; giudizio non sempre facile da emettere, poiché noi ci lasciamo così facilmente prendere dal fuoco dell’azione, dalle nostre proprie voglie, quella di andare fino alla fine, quella di arrivare ad una meta determinata, quella legata alla fatica, quella legata alla disperazione, e ad altre inclinazioni personali.

Due, l’humour, il riso, legati alla dimensione ludica dell’esercizio. Questi inducono una sorta di “distensione” che permette all’individuo di liberarsi di sé medesimo, di fuggire dal suo dramma esistenziale e di osservare senza dolore la derisione di certe posizioni alle quali si ancora talvolta con un tocco di ridicolo quando non è nella più fragrante contraddizione con se medesimo. Il riso libera delle tensioni che senza quello potrebbero inibire il soggetto in questa pratica non poco corrosiva.

Tre, il raddoppiamento, che permette al soggetto di uscire da se stesso, di considerarsi come una terza persona. Quando l’analisi del suo proprio discorso attraversa un momento pericoloso, quando il giudizio porta su delle questioni troppo pesanti da sostenere, è utile e interessante trasporre il caso studiato su una terza persona, invitando il soggetto a visualizzare un film, ad immaginare una fiction, ad intendere la propria storia sotto forma di una fiaba. “Supponiamo che voi leggiate una storia dove si racconta che…”, “Supponete di incontrate qualcuno, e che tutto quello che sapete su di lui è che…” Questo semplice effetto di narrazione permette al soggetto di dimenticare o di relativizzare le sue intenzioni, i suoi desideri, le sue volontà, le sue illusioni e disillusioni, al fine di trattare solo la parola, come sorge lungo la discussione, lasciandola effettuare le sue proprie rivelazioni senza cancellarle in permanenza con delle pesanti supposizioni o con delle patenti accuse di insufficienza e tradimento.

Quarto, la concettualizzazione, l’astrazione. Universalizzando ciò che tende ad essere percepito esclusivamente come un dilemma o una questione puramente personale, problematizzandolo, rendendolo dialettico, il dolore si attenua nella misura in cui l’attività intellettuale si mobilita. L’attività filosofica stessa è una sofrologia, una “consolazione”, così la pensavano gli antichi come Boezio, Seneca, Epicuro o più recentemente Montaigne, balsamo che ci permette di considerare meglio la sofferenza intrinsecamente legata all’esistenza umana.

Esercizi annessi:

Qualche esercizio supplementare si rivela molto utile al processo di riflessione. Per esempio l’esercizio di legame. Questo permette di estrarre il discorso dal suo versante “flusso di coscienza” che funziona puramente per libere associazioni abbandonando all’oscurità dell’inconscio le articolazioni e le giunture del pensiero. Il nesso è un concetto alquanto fondamentale che tocca profondamente l’essere, poiché collega le differenti sfaccettature, i differenti registri. ” Legame sostanziale”, ci dice Leibniz. “Qual è il legame tra ciò che dite qui e ciò che avete detto là?” Messe da parte le contraddizioni che saranno evidenziate da questa interrogazione, saranno anche le rotture e i salti a segnalare delle difficoltà, dei punti ciechi, su cui la coscienza permette, attraverso il discorso, di lavorare da vicino lo spirito del soggetto. Questo esercizio è una delle forme dell’itinerario “anagogico”, che permette di risalire all’unità, di cogliere il radicamento, di mettere in luce il punto d’emergenza del pensiero del soggetto, con il rischio di criticare in seguito questa unità e di modificare il punto fermo.

Un altro esercizio: quello del “vero discorso”. Esso si pratica quando una contraddizione è stata scoperta, nella misura in cui il soggetto accetta il qualitativo di contraddittorio come attributo del suo pensiero, cosa che non si verifica sempre: certi soggetti rifiutano di coglierlo e negano per principio la semplice possibilità di una contraddizione nella loro parola. Chiedendo qual è il vero discorso – anche se negli istanti generalmente slittati in cui vengono pronunciati , sono pronunciati con altrettanta sincerità l’uno e l’altro – si invita il soggetto a giustificare le due posizioni differenti che sono le proprie, a valutare il loro valore rispettivo, a comparare i loro meriti relativi, a deliberare al fine di risolvere la questione in favore del primato di una delle due prospettive, decisione che lo porterà a prendere coscienza del suo proprio funzionamento. Non è assolutamente indispensabile decidere, ma è consigliato incoraggiare il soggetto a rischiarsi, poiché è molto raro, se non pressoché impossibile, incontrare una reale assenza di preferenza tra due visioni distinte, con le conseguenze epistemologiche che ne derivano. Le nozioni di “complementarietà” o di “semplice differenza” a cui fa spesso appello il linguaggio corrente, sebbene esse detengano la loro parte di verità, servono spesso a cancellare le problematiche reali, sufficientemente conflittuali e tragiche, di ogni pensiero singolare. Il soggetto potrà tentare anche di spiegare il perché del discorso che non è “il vero”. Spesso questo corrisponderà alle attese, morali o intellettuali, che crede di cogliere nella società, o ancora al desiderio proprio che considera illegittimo; discorso in questo senso molto rivelatore di una percezione del mondo e di un rapporto all’autorità o alla ragione.

Altro esercizio, quello dell’”ordine”. Quando si domanda al soggetto di donare delle ragioni, delle spiegazioni o degli esempi a proposito di tale o tale sua proposizione, gli si domanda di assumere l’ordine con il quale le enumera. Soprattutto il primo elemento della lista, che si metterà poi in rapporto con un elemento susseguente. Utilizzando l’idea che l’elemento primo è il più evidente, il più chiaro, il più sicuro e dunque il più importante nel suo spirito, gli si chiederà di assumere la scelta, generalmente incosciente. Spesso il soggetto si ribellerà a quest’esercizio, rifiutando di assumere la scelta in questione, rinnegando questo “erede partorito” malgrado lui. Accettando di fare questo esercizio -che vi aderisca in maniera esplicita, implicita o per nulla – lui dovrà rendere conto dei presupposti contenuti in tale o tale scelta. Al peggio, come per la maggior parte degli esercizi della consultazione, questo abituerà a decodificare ogni preposizione avanzata per coglierne il contenuto epistemologico e intravedere i concetti veicolati, anche quando non sono solidali con l’idea.

Universale e singolare

Globalmente, cosa chiediamo noi al soggetto che desidera interrogarsi, a quello che desidera filosofare a partire da sé e a proposito della sua esistenza e del suo pensiero? Deve apprendere a leggere, a leggersi, cioè apprendere a trasporre i propri pensieri ed apprendere a trasporre se stesso attraverso il pensiero; raddoppiamento e alienazione che necessita la perdita di sé attraverso un passaggio all’infinito, attraverso un salto nel puro possibile. La difficoltà di questo esercizio è che si tratterà sempre di eliminare qualche cosa, di dimenticare, di oscurare momentaneamente il corpo o lo spirito, la ragione o la volontà, il desiderio o la morale, l’orgoglio o la placidità. Per fare ciò, occorre mettere a tacere il discorso annesso, il discorso della circostanza, il discorso del riempimento e dell’apparenza: o la parola assume il suo compito, le sue implicazioni, il suo contenuto, o deve apprendere a ritirarsi. Una parola che non è pronta ad assumere il suo essere proprio, in tutta la sua ampiezza, una parola che non è desiderosa di prendere coscienza di se medesima, non ha più senso di presentarsi alla luce, in questo gioco dove solo il cosciente è permesso, teoricamente o almeno come tentativo. Evidentemente, certi non desiderano partecipare al gioco, considerato troppo penibile, la parola qui è troppo carica di portata.

Obbligando il soggetto a selezionare il suo discorso, e rinviandolo attraverso il mezzo della riformulazione all’immagine che lui manifesta, si tratta di installare una procedura dove la parola sarà la più rilevatrice possibile. Certo è possibile e talvolta utile imboccare dei percorsi già tracciati, per esempio citando degli autori, ma è buona regola assumersene il tenore come se fosse esclusivamente nostro. D’altronde, che cosa tentiamo di fare, se non di ritrovare in ciascun discorso singolare, per quanto malleabile che sia, le grandi problematiche, autenticate e codificate da illustri predecessori? Come si articolano in ciascuno l’assoluto e il relativo, il monismo e il dualismo, il corpo e l’anima, l’analitico e il poetico, il finito e l’infinito, etc… Esponendosi al rischio di un sentimento di tradimento, dal momento che si può difficilmente sopportare il fatto di vedere la propria parola così tradita, anche se da noi stessi. Un sentimento di dolore e di de-possessione, come quello di colui che vedrà il suo corpo operato sebbene tutto il dolore fisico sia stato annichilito. Alcune volte, intuendo le conseguenze di un’interrogazione, il soggetto tenterà in tutti i modi di evitare di rispondere. Se l’interrogatore persevera per delle “strade fuori mano”, una sorta di risposta finirà senza dubbio per emergere, ma unicamente nel momento in cui il cuore del problema sarà sparito dietro l’orizzonte, tanto che e sebbene che il soggetto, rassicurato da questa sparizione, non riuscirà più a stabilire un legame con la problematica iniziale. Se l’interrogatore ricapitola le tappe per ristabilire il filo di Arianna della discussione, il soggetto potrà allora accettare o non accettare di vedere, a seconda dei casi. Un momento cruciale, sebbene il rifiuto di vedere talvolta non sia che verbale: il cammino non potrà non aver tracciato qualche impronta nello spirito del soggetto. Sebbene attraverso un meccanismo di pura difesa, quest’ultimo tenterà talvolta di rendere verbalmente impossibile tutto il lavoro.

Accettare il patologico:

Come conclusione circa le difficoltà della consultazione filosofica, diciamo che l’esame principale risiede nell’accettazione dell’idea di patologico, considerata secondo un significato filosofico. In effetti, ogni postura esistenziale singolare, ogni scelta che si effettua più o meno coscientemente negli anni ,diventa ,per molteplici ragioni, un vicolo cieco rispetto a un certo numero di logiche e di idee. Fondamentalmente, queste patologie non sono infinite, sebbene le loro articolazioni specifiche varino enormemente. Ma per colui che le subisce, è difficile concepire che le idee su cui lui orienta la sua esistenza siano ridotte a delle semplici conseguenze, quasi prevedibili, di una fragilità cronica nella capacità di riflessione e di deliberazione. Pertanto, il “pensare per se stessi” che raccomandano un buon numero di filosofi non è un arte che si lavora e si acquisisce, piuttosto che un talento innato, dato, che non dovrà più ritornare su se medesimo?